Kristen Stewart, Scarlett Johansson e Harris Dickinson esordiscono alla regia e vanno subito a Cannes. Uno strano caso del destino, non trovate? Va bene, c’è un elefante nella stanza. Ebbene sì: se si chiamavano Smith, Jones e De Zurlettis, c’erano meno possibilità che questo raduno di bellezza e talento accadesse. E sapete perché: perché sono belli e famosi, e attori notevoli. Attori, appunto. E adesso anche registi. Per la cronaca, dando per scontato che anche rane, iguana e lumache sappiano chi siano le prime due, Harris Dickinson è quel manzo mezzo psicopatico per cui perde la testa Nicole Kidman in Babygirl. Ma dato che il ragazzo è bravo sul serio, meglio ricordarlo per Triangle of Sadness, il film che è valso la seconda Palma d’oro a quella sagomaccia di Ruben Östlund, in cui era il modello trasformato da oggetto del desiderio a oggetto del proletariato. Talento notevolissimo, senza ombra di dubbio la cosa migliore della sopravvalutatissima serie A Murder at the End of the World, e se vi capita recuperate Rubber, piccolo indie britannico in cui è davvero magnifico.
Di Kristen e Scarlett sappiamo tutto. Ragazze prodigio, la prima si è fatta le ossa duettando con Jodie Foster e diretta da David Fincher (Panic Room), la seconda esordendo con Robert Redford che sussurrava ai cavalli, e la fu Black Widow giura e spergiura che è da allora, quindi dall’età di dodici anni, che vuole passare dietro la macchina da presa. Difficile credere che non le siano mancate le occasioni, ma evidentemente voleva proprio essere sicura.
Naturalmente non è la prima volta che succede che un interprete di grido arrivi nella manifestazione cinematografica più importante del pianeta senza passare dal via. Era successo a Ryan Gosling, tanto per fare un nome. Il film si intitolava Lost River, incomprensibile noir tra Refn e Lynch interpretato da Saoirse Ronan, Christina Hendricks e Matt Smith. Selezionato anche quello nella sezione Un Certain Regard, mi costò due ore di fila sotto il sole cocente e circa il triplo di violenta incazzatura. In tempi più recenti, è successo a una delle attrici francesi sulla cresta dell’onda negli ultimi anni, Noémie Merlant, che nell’edizione 2021, quella svoltasi a luglio e che vide trionfare Titane, portò la sua opera prima Mi iubita, mon amour. Si sa che a Cannes ai francesi tutto è concesso, ma per par condicio dobbiamo ricordare che anche Valeria Golino vide il suo Miele selezionato in Un Certain Regard, nel 2013, e, se mi permettete, vorrei anche vedere.

Kristen Stewart con Imogen Poots sul set di ‘The Chronology of Water’. Foto: CG Cinema
Ma torniamo ai giorni nostri. Che cosa ci vogliono raccontare Kristen, Scarlett e Harris? Partiamo dalla donna una volta conosciuta come Bella Swan. The Chronology of Water è tratto dal romanzo autobiografico omonimo di Lidia Yuknavitch, che, sperando di sfuggire a una famiglia violenta, si iscrive a un college del Texas con una borsa di studio per il nuoto, con l’obiettivo di partecipare alle Olimpiadi. Le sue speranze di una carriera nel nuoto vengono però infrante quando perde la borsa di studio a causa dell’alcol e della droga. In seguito, si iscrive all’Università dell’Oregon e viene selezionata tra pochi studenti per lavorare con Ken Kesey al suo romanzo collettivo Caverns. Durante questo periodo, Lidia continua a sperimentare droghe ed esplorare la sua identità bisessuale attraverso il BDSM. Man mano che la sua carriera avanza, acquista sicurezza nella sua identità, incontra suo marito e mette su famiglia. Una storia di rinascita dopo l’inferno, per molti versi quello che è successo a lei dopo quattro film di Twilight, un finto (?) fidanzamento con Robert Pattinson per motivi promozionali, dovendo probabilmente nascondere per anni le sue preferenze sessuali e, in qualche modo, anche i suoi gusti cinematografici. Kristen, fresca sposina, si è liberata da tempo su tutti i fronti, ma raccontare questa storia, cosa che aveva annunciato oltretutto proprio a Cannes nel 2018, è certamente parte di un processo. E naturalmente le auguriamo un gran bene. Il film, interpretato da una fantastica (ma quando non lo è?) Imogen Poots, è un’opera acerba, certamente libera, che se fatta da te, giovane-aspirante-regista-donna-che-non-conti-un-cazzo, avrebbe faticato a trovare spazio in una sezione collaterale di un festival minore.
Passiamo a Scarlett. La donna che ha fatto causa alla Disney vincendo (credo sia scritto sulla sua business card) afferma di essersi immediatamente innamorata della sceneggiatura di Eleanor the Great, storia di una ultranovantenne che, dopo la morte dell’amica con cui divideva la stanza in una casa di riposo in Florida, decide di tornare a New York dove, rifiutata dalla famiglia, fa amicizia con una giovane studentessa di giornalismo alla New York University, anch’ella alle prese con l’elaborazione di un lutto. In mezzo c’è il dolore della memoria dei campi di concentramento e altre cose varie di cui fondamentalmente frega poco. L’anziana protagonista è la 95enne June Squibb, attrice con una nomination all’Oscar alle spalle (per Nebraska di Alexander Payne, presentato a Cannes nel 2013) e un inaspettato prolungamento di carriera grazie a Thelma, l’action più lento della storia, uscito l’anno scorso.
Tra i tre, Urchin di Harris Dickinson è decisamente il più interessante, e molto dipende anche dalla formazione del suo autore. Londinese, nato e cresciuto a Walthamstow, nord-est, un posto che fino a non molto tempo fa era un discreto covo di tagliagole e che adesso è una delle molte zone gentrificate della capitale britannica, si è nutrito a pane e Loach e Leigh ed è molto meno snob dei figli di papà usciti dalla London Film School o dalla Saint Martins. Urchin è la storia di un giovane, Frank, tossico che cerca di riscattarsi e a cui, come nella migliore tradizione del cinema proletario britannico, succede il male e il peggio. Un film duro, a suo modo sincero, che fa intravedere un talento registico da coltivare. Sarà un caso, ma nello stesso quartiere nacque e crebbe Alfred Hitchcock, c’è anche un Rear Window Restaurant, un The Birds Pub e un Sir Alfred Hitchcock Hotel a Whipp Cross, a poche centinaia di metri dall’ospedale in cui fu partorito Harris.
Detto ciò, abbiamo bisogno di attori famosi che diventano registi? Non necessariamente, soprattutto se sono bravi a fare il loro mestiere primario. Sentire di avere qualcosa da dire è bellissimo, saperlo esporre bene è un’altra cosa, e il poterlo fare grazie al nome e al potere acquisito non è un valore aggiunto.
Parlando di opere prime, preferisco segnalare il francese Des prouves d’amour (Love Letters in inglese), bell’esordio di Alice Douard, già vincitrice di un César per il cortometraggio, che racconta la storia di una donna in attesa di diventare madre (Ella Rumpf), ma senza partorire, dato che la gravidanza è portata avanti da sua moglie. Film che intreccia un tema sociale e politico delicato come quello della genitorialità nelle coppie omosessuali al dubbio esistenziale di una donna che non può sentire la maternità, specchiandosi oltretutto nel difficile rapporto con la sua, di madre. Un gioiellino selezionato nella Semaine de la Critique, casa delle opere prime. Se mai arriverà in Italia, ve lo consiglio.