Tra il Nord Est e il West: che poi l’importante è andare, altro che balle. Che sia per un ultimo bicchiere (o per quello ancora dopo…), oppure in fuga da un mondo che cambia ed è sempre lo stesso. Non stanno mica mai fermi, questi italiani qua: ed è un gran bel lavoro.
Nati negli anni ’80, quando gli altri se la godevano e a loro hanno lasciato un bel casino, portano acqua(vite) fresca alla causa di un cinema nostrano che cerca di cambiare pelle, riconoscente – ma senza salamelecchi – a un passato che usa per modificarne contenuti e ambizioni, attualizzarlo o semplicemente per farne qualcosa di completamente diverso. Da quello che hai visto, d’accordo; ma soprattutto da quello che ti aspetti. Tanto lo sanno questi under (o freschi) anta che “non c’è un’altra volta”.

Pierpaolo Capovilla (Doriano), Filippo Scotti (Giulio) e Sergio Romano (Carlobianchi) in ‘Le città di pianura’ di Francesco Sossai. Foto: Vivo film/Maze Pictures
Vanno in direzioni diverse, entrambi senza Google Maps: uno (Le città di pianura di Francesco Sossai) a smarrirsi nel Veneto di ombre e sghei (più le prime che i secondi), in un on the road che sta tra la ballad e la zingarata; l’altro (Testa o croce? di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis) in un West fiabesco e maremanno, dove i duelli non li fai con la colt ma, al massimo, a forza di stornelli.
Però li accomuna la voglia di scoprire, i due italiani (che poi sono tre) di Un Certain Regard; e anche la storia minima, quelle facce un po’ da cialtroni e un po’ da perdenti, strade senza nome che non portano da nessuna parte. Giocano in campo aperto: e lì non sai mai come può andare a finire.

Sergio Romano (Carlobianchi), Filippo Scotti (Giulio) e Pierpaolo Capovilla (Doriano) in ‘Le città di pianura’ di Francesco Sossai. Foto: Vivo film/Maze Pictures
Prendi il Veneto del bellunese Francesco Sossai, dove non c’è più nessun luogo dove andare, ma solo itinerari in cui muoversi senza senso da un posto all’altro: un film corretto prugna che coglie miseria e nobiltà della provincia – quella fottuta dalla grande crisi del 2008 – tra balli di gruppo country, cocktail di gamberi in salsa rosa, gare di Ape car in montagna, birre malauguratamente analcoliche.
Pensi al Sorpasso, ovvio, ma ci senti dentro anche quell’aria alla Mazzacurati, in questo film stropicciato che sale in Jaguar con due amici cinquantenni (Sergio Romano e Pierpaolo Capovilla) che cercano un bar aperto per bere l’ultimo bicchiere, si imbattono in uno studente napoletano (Filippo Scotti) e lo convincono a seguirli: che magari ci scappa anche il tempo di andare a vedere la tomba di Carlo Scarpa, architetto geniale, sepolto in piedi come i samurai. Il mito del Nord Est? Non esiste più: c’è solo il nulla intorno e Le città di pianura in mezzo. La trasformazione – antropologica, ambientale, urbanistica – è già in atto: e pazienza se l’autostrada passa in giardino. Che alla fine, “zio can”, ha chiuso anche la Mery: e adesso dove le mangi le lumache?

Nadia Tereszkiewicz (Rosa) e Alessandro Borghi (Santino) in ‘Testa o croce?’ di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis. Foto: Alessandro Zoppis
Problemi loro, non di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, per tutti “i Granchi” (sono difatti quelli del notevole Re Granchio, loro debutto nella fiction del 2021), che la vita se la giocano a Testa o croce?. Ma non dite, please, che è un western all’italiana: piuttosto un western italiano, e vi assicuro che c’è tutta la differenza del mondo. I due autori prendono in prestito uno dei generi fondativi del cinema americano (poi reinventato dagli “spaghetti” di Leone) e ne fanno, con molta ironia e altrettanto coraggio, un’avventura picaresca e infine anche magica, tra cacciatori di rane e cavalieri senza corpo (invece che senza testa).
Ne esce un film insolito, curioso, anche sapientemente naïve, che parte ispirandosi a un fatto vero – il tour italiano di Buffalo Bill con il suo circo tra fine ’800 e inizio ’900 – per poi fare esplodere un immaginario inconsueto, dove il grande gioco dei generi (destrutturati, rimontati, mescolati) stringe la mano al fumetto, la commedia va a braccetto con il sogno, tradito e bislacco, dell’America.

John C. Reilly (Buffalo Bill Cody) in ‘Testa o croce?’ di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis. Foto: Alessandro Zoppis
Insomma, si dà via la palla di prima, dimostrando però di conoscere anche i fondamentali: la taglia, la costruzione della ferrovia, persino la rivoluzione, all’appello non manca nulla. Con la grande fuga di Santino e Rosa – lei ha ucciso il marito violento – che sa di Avventura a Durango, ma senza epica e senza mito: ché qui il cowboy – “meraviglioso scemo”, come lo definisce un divertentissimo Alessandro Borghi (in un cast internazionale che comprende anche la forever young Nadia Tereszkiewicz e il grande John C. Reilly nella parte di Buffalo Bill) – non spara un colpo e si accoda alla ragazza con la pistola, pronta invece a fare fuoco sul patriarcato. Roba da italiani, che lo sa pure Sossai: «Me lo aspettavo amaro, e invece è dolce nel finale».