Carmen Consoli: «Rosa Balistreri voleva essere la voce di tutte» | Rolling Stone Italia
rompere il ciclo dei vinti

Carmen Consoli: «Rosa Balistreri voleva essere la voce di tutte»

È uscito l'8 maggio 'L'amore che ho', il film di Paolo Licata sulla vita di una delle voci-simbolo della musica popolare siciliana. Ne abbiamo parlato con l'artista che ha firmato le musiche, tra politica, emancipazione ed eredità

rosa balistreri

Carmen Consoli (a sinistra) e Lucia Sardo nel ruolo di Rosa Balistreri

Foto press

«Sei romana? Allora tu c’hai Gabriella Ferri, che era molto amica di Rosa. Ed erano anche molto simili: avevano questa voce graffiata e cantavano un disagio reale». L’occasione per incontrarla è l’uscita del nuovo film di Paolo Licata L’amore che ho, un affresco coralissimo sulla vita di un pilastro della musica popolare siciliana, Rosa Balistreri, presentato al 42esimo Torino Film Festival, ispirato all’omonimo romanzo del nipote Luca Torregrossa e arrivato al cinema l’8 maggio.

A interpretare Rosa nelle diverse fasi della sua esistenza – l’infanzia con un padre violento, il matrimonio combinato, il carcere, il rapporto tormentato con la figlia, il successo e infine la vecchiaia – un cast che meglio di così non poteva essere, con Lucia Sardo, Donatella Finocchiaro, Anita Pomario e Martina Ziami a passarsi il testimone dell’età (e insieme a loro anche Tania Bambaci e Vincenzo Ferrera, rispettivamente nei panni della figlia e del padre di Rosa). A realizzare le musiche originali del film, invece, è Carmen Consoli. E d’altronde, se non lei, chi?

Folgorata a 13 anni dalla figura e dalle parole di Rosa Balistreri, ma soprattutto da quel suo fare comizi imbracciando una chitarra, Consoli tiene viva da sempre la memoria di Rosa (arrivando a portarla anche in tour mondiale all’interno del suo spettacolo Terra ca nun senti). La prima volta che ha composto per il cinema è nato un cult, ormai 25 anni fa con L’ultimo bacio, e stavolta Consoli non si risparmia e mette le mani ovunque: nei brani inediti, nella produzione artistica, negli arrangiamenti e nell’orchestrazione di L’amuri ca v’haju, colonna sonora del film pubblicata dalla sua Narciso Records. Bouzouki, basso elettrico, cajon e theremin, il mandolino e gli immancabili archi, i violini, le chitarre più malinconiche, e finalmente quell’Orchestra Popolare Siciliana che Balistreri tanto aveva sognato in vita e che Consoli, in qualche modo, le ha appena regalato.

Indignata fin da piccina per «il padrone che mangia la carne mentre gli altri muoiono di fame», portavoce del popolo, degli ultimi, degli abusati e soprattutto degli stonati (ci arriviamo). Nonostante l’accanimento della vita e le continue occasioni mancate, Carmen Consoli ci ricorda che «Rosa Balistreri non fa parte del ciclo dei vinti. Perché Rosa, a un certo punto, vince». Basti pensare che Rosa è ovunque, o come dice Lucia Sardo, che per le donne siciliane Balistreri è una di famiglia, «perché dietro ogni porta c’è una Rosa».

Così la Cantantessa racconta la portavoce del popolo tra brani tradizionali e temi inediti, e cuce addosso a ogni attrice le diverse temperature di Rosa (dalle ninna nanne che da giovane cantava alla figlia al canto politico e rabbioso dell’età adulta, fino alla resa più dolce della vecchiaia). E ognuna di loro (pazza idea di Licata) interpreta i brani con la sua voce. Perché «tutte devono cantare Rosa», sostiene Carmen Consoli, che quando parla ti piazza gli occhi negli occhi e ti convince con il ritmo degli accenti, con gli avverbi e l’intensità delle doppie che rimarca.

Potrebbe vendere qualsiasi cosa a chiunque, eppure, un po’ come Rosa, sceglie di dare un peso alle parole che veicola nei suoi comizi. Nel film partecipa anche con un piccolo ruolo, quello di un’artista di strada che per caso si ritrova a cantare la bellissima A curuna insieme a Balistreri, ormai anziana. Non la riconosce subito, ma quando capisce che sta cantando proprio con Rosa, l’emozione sembra reale. Sembra quella di Carmen.

l’Amore che ho | Trailer | Dea Film, Moonlight Pictures

Cos’ha rappresentato davvero Rosa Balistreri per te?
Rosa è quella donna che ho dentro, che non voglio dimenticare, che mi ricorda di essere fedele a me stessa.

Quando l’hai scoperta?
Ero molto piccola, avevo 13 anni, mi chiamarono per fare uno spettacolo teatrale di Ercole Patti. Io dovevo fare Rosa Balistreri. In quell’occasione ero sola con la chitarra, vestita da siciliana, a interpretare le sue canzoni. Ne feci cinque e poi conobbi tutto il mondo di questa cantante, che non era solo una cantante folkloristica ma era proprio la cantante della mia terra, la più vicina alle donne. Aveva una canzone che diceva: “Signore, è arrivata la pillola!”. A pinnula, il contraccettivo, la rivoluzione. Ti immagini, no? Era molto ma molto coraggiosa, e il coraggio di essere sé stessi, di lottare per quello in cui crediamo, oggi non è un valore che andrebbe evidenziato.

Ho visto il film dopo quest’ultimo concertone del 1° maggio, forse il meno politico di sempre. Al contrario, quella di Rosa è sempre stata una canzone politica. Non ha cantato solo per le donne, contro le mafie, contro il governo e il clero corrotto, ma soprattutto ha cantato per i diritti degli ultimi e la dignità dei lavoratori. Secondo te perché non è più attraente cantare di diritti sociali?
E perché, secondo te, i lavoratori votano dei partiti che non gli fanno cantare i loro diritti? Perché c’è anche il problema di volere ciò che ti spetta, e questo è un problema di cultura. Ascoltate me che sono una vecchia boomer: in questo momento il punto non è cantare di politica. La grande rivoluzione è la cultura. Un lavoratore, una persona, un essere umano che ha consapevolezza è anche in grado di votare persone che lo difendano, è in grado di riconoscere e chiedere ciò di cui ha bisogno. Era il principio dell’Illuminismo francese. Ma adesso la nostra è una cultura frammentata, perché l’uomo non ha neanche il tempo per elaborare delle cose, perché il tempo è poco, perché il tempo è profitto e oggi conta solo il Dio denaro. Quindi prima di parlare di diritti dei lavoratori bisogna ricordare cosa diceva Francesco Bacone: che l’uomo tanto sa, tanto può.

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Lucia Sardo è Rosa Balistreri in ‘L’amore che ho’ di Paolo Licata. Foto: press

L’assenza quasi totale di una canzone italiana impegnata non ti fa arrabbiare?
Noi negli anni Ottanta abbiamo visto anche di peggio. Dicevamo: “Ma che cavolo di musica ci stanno facendo ascoltare?”, e in realtà tutto coincideva con un calo culturale. Questo è Orwell. E anzi, se paragoni Mahmood o Elodie a quello che passava in radio ai miei tempi, ti dico che il mainstream di adesso è nettamente superiore. Il punto è che prima c’era anche la possibilità dell’indie, e noi eravamo gli alternativi. Oggi questo spazio non c’è: o ti infili nell’imbuto o non esci fuori. Questa è l’unica cosa che mi fa arrabbiare, che se sei giovane non c’è spazio per il diverso.

Per quanto riguarda le musiche del film, avevi due grandi sfide: restituire sia l’essenza di Rosa che della canzone popolare siciliana, il cui ritmo è scandito dai gesti del lavoro e della fatica, come nel blues. Da dove sei partita?
Sia io che le attrici avevamo già fatto un lavoro individuale su Rosa, addirittura con Donatella [Finocchiaro] collaboro nello spettacolo che s’intitola Terra ca nun senti. Quindi io avevo già fatto una mia ricerca su Rosa e ho portato nel film la mia visione, che al di là delle contaminazioni blues richiama la musica tradizionale siciliana. Sono molto filologica in questo senso. Ciò che mi ha stupito è stata la bravura delle attrici nell’interpretarla.

l'amore che ho

Donatella Finocchiaro in una scena del film. Foto: press

Attrici che cantano, tutte con la loro voce, i brani di Rosa. Possiamo dire che non ce lo aspettavamo?
L’idea è stata del regista: “Mi piacerebbe che fossero le attrici a cantare”. Al che io sgrano gli occhi e dico: “Mizzica!”. Perché non dovevano mica fare una vocina così, dovevano fare Rosa. Nel film cantano con la calata e l’intenzione di Rosa, e nel disco della colonna sonora io neanche ci sono, pensa te, ci sono loro! Ci siamo imbarcate in questa avventura tutte insieme e si è consolidata un’amicizia. È stato bello anche fare le cene insieme, con i risotti di mia madre, sognare Rosa e dire: “Facciamolo con il cuore”.

Se dovessi spiegare perché la voce di Rosa Balistreri è tecnicamente inarrivabile?
Perché come per Billie Holiday, a questo punto credi nella reincarnazione: Rosa è dotata naturalmente di un’intonazione, un vibrato e una potenza infallibili. L’emissione o il modo in cui fa gli intervalli sono cose inspiegabili. Allora ti chiedi: com’è possibile che sia nata in una famiglia così povera eppure abbia una tecnica che andrebbe studiata per anni?

Molti sostengono che tecnicamente tu sia l’unica a poter cantare Rosa Balistreri oggi. Hanno ragione?
Io contesto fortemente tutti coloro i quali non accettano che Rosa sia interpretata da gente che non abbia una voce con quelle qualità. Secondo la mia opinione, il desiderio vero di Rosa – e qua entra in gioco la sua politica – era essere la voce di tutte. Rosa va cantata anche con voci disfatte, voci sotto la doccia, voci stonate. Raggiungere quel livello è quasi impossibile, ma tutte devono cantare Rosa.

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Un fotogramma di ‘L’amore che ho’ di Paolo Licata. Foto: press

Oltre a Rosa c’è un ritmo interno al film, una sorta di vibrato femminile, di tensione battente che definisce una sinfonia di ribellione al patriarcato. Penso alla scena delirante della forchetta, quando Rosa aggredisce il cognato violento…
Bellissima quella scena, e poi idda mangia! A quella Rosa di cui parli ho voluto associare un momento siciliano legato agli arabi. Anche perché gli arabi – non i saraceni, ci tengo a dirlo – ci hanno rispettati, hanno portato cultura e tolleranza, quindi non escludo che le donne potessero esprimere delle forme di emancipazione all’epoca. La musica araba mi dà proprio questa idea di ribellione contro il patriarcato, che ho declinato al femminile per raccontare che Rosa non si fa sottomettere, che dentro un harem ti infilza la mano con una forchetta. E torniamo sempre lì: perché oggi il patriarcato riemerge in questa maniera? Perché c’è un aumento di ignoranza, quindi il più forte sovrasta il più debole.

E riguarda solo il patriarcato?
Tu hai mai visto la manager misogina che impedisce a tutte le donne di fare carriera?

Tu l’hai vista?
Io l’ho vista, sì. Per cui, oltre al patriarcato, adesso l’altro mostro è il potere. Pesce grosso che mangia pesce piccolo. Ecco perché noi dobbiamo contrastare la subcultura fascista: perché un domani che te le trovi tutte al potere, le donne, stai tranquilla che non avranno pietà di te. Come già succede, e non possiamo negarlo. Dovremmo smetterla di parlare solo di patriarcato: iniziamo a parlare di ignoranza.

OSZAR »