Visitando con Wes Anderson Typologien, la mostra ora in corso alla Fondazione Prada di Milano dedicata alla fotografia tedesca del ’900, a un certo punto ci troviamo davanti a delle immagini in bianco e nero di vecchie centrali, cadaveri di ferro e lamiera, tubi, stantuffi, pistoni. «Fa molto La trama fenicia», gli dico io. «È vero», sorride lui studiando quegli scatti meticolosamente. Ed è lì che pensi: il mondo è sempre stato accidentally wesandersoniano o è lui che, da un certo punto in poi, ce l’ha fatto vedere attraverso la sua lente?
Sembrano, quelle vecchie centrali tedesche, il progetto finale di Zsa-zsa Korda (un gigantesco Benicio del Toro), l’immaginario guru milionario che, negli anni ’50, gira per il Medio Oriente alla ricerca di fondi per questa sua utopia nel deserto, ferrovie, tunnel, centrali… Come i veri magnati dell’epoca, come – inevitabile unire i puntini – gli Elon Musk di oggi, con la semplice differenza che questi ultimi hanno trame non siderurgiche ma spaziali.
La trama fenicia (nelle sale italiane dal 28 maggio con Universal Pictures dopo la presentazione in concorso a Cannes) parte in realtà da una storia di famiglia, quella della moglie di Anderson. Suo padre, dunque suocero di Wes, Fouad Mikhael Malouf (costruttore libanese morto nel 2022: a lui è dedicato il film) un giorno convocò la figlia, tirò fuori diverse scatole da scarpe, e le mostrò i tanti progetti che erano conservati in ciascuna di esse: quello in Francia, quello in Spagna… Il succo era: quando non ci sarò più, saprai tu cosa farne.
Così fa Zsa-zsa/Benicio, che continua a incontrare la morte e miracolosamente scamparla, con la figlia Liesl (la notevolissima Mia Threapleton, figlia di Kate Winslet nella vita reale), che nel frattempo si è fatta suora. Inizieranno una peregrinazione geopolitica tra governi sgangherati, principi arabi trafficoni, americani che si mettono sempre in mezzo. E le (in)solite facce del solito super cast: Michael Cera, Riz Ahmed, Tom Hanks, Bryan Cranston, Jeffrey Wright, Mathieu Amalric, Richard Ayoade, Scarlett Johansson, Benedict Cumberbatch, Rupert Friend, Willem Dafoe, Charlotte Gainsbourg e un Bill Murray letteralmente “divino”.
Chiacchiero con Wes Anderson nel suo hotel preferito di Milano dopo l’anteprima del film alla Fondazione Prada, «il mio cinema preferito al mondo» – e come dargli torto.

Wes Anderson e Bill Murray presentano ‘La trama fenicia’ alla Fondazione Prada di Milano. Foto: Patrick Toomey Neri/Fondazione Prada
Comincio da un dettaglio forse stupido. Sullo sfondo di una scena ho intravisto una bottiglia di liquore Strega, e ho pensato che forse quella è la tua arma segreta, anzi la tua trama segreta: ogni volta riesci a costruire un mondo enorme, stratificatissimo, che esiste e basta a sé stesso, ma pieno di dettagli solo apparentemente casuali. E riesci a tenere l’attenzione dello spettatore contemporaneamente sia sul macro che sul micro, sulla cornice generale e, appunto, sul piccolissimo particolare.
Intanto parliamo del liquore Strega: non è affatto un dettaglio stupido, anzi mi diverte che tu l’abbia tirato fuori. Non ne avevo mai sentito parlare finché qualche anno fa Salvatore, il barista del Bar Luce (il bar della Fondazione Prada che Anderson ha disegnato, nda), mi consigliò di bere una cioccolata calda con lo Strega. E lì ho pensato: “È un’ottima combinazione”. Poi ho guardato la bottiglia, che sembra un oggetto di un’altra epoca. E il colore così giallo lo fa sembrare una pozione inventata da una nonna secondo un’antica tradizione di famiglia, e l’etichetta sembra un’incisione dell’800… insomma, mi ha colpito molto. Il personaggio di Benicio nel film ha sempre viaggiato molto, e non c’è per forza bisogno di viaggiare per raccogliere e collezionare oggetti; ma anch’io, solo per il fatto di avere 56 anni e aver viaggiato molto, sono venuto a conoscenza di molte più cose negli anni… come lo Strega, appunto. Parlando di questa storia in particolare, ci sono tantissime persone che ho incontrato lungo la strada e che si sono unite a me nei miei film, e che ho voluto anche stavolta con me: mi piace affrontare ogni progetto come un’occasione per condividere le cose con gli altri, e creare insieme a loro un mondo che si costruisce a poco a poco, come in un romanzo.
A proposito di romanzi: sai che lo Strega è lo storico sponsor che dà il nome al più importante premio letterario italiano? Un po’ come il Goncourt in Francia.
Non lo sapevo, e mi fa sorridere questa cosa. Prima o poi dovrò cercare di andare alla presentazione, dove si tiene?
A Roma, d’estate. Tornando ai tuoi mondi. L’ispirazione del film è stata, tra le altre cose, tuo suocero e le scatole dei suoi progetti. Anche tu costruisci i tuoi mondi, diciamo così, per scatole?
Non so se c’è un metodo, o forse l’ho creato negli anni senza però averlo pianificato. Quando si fa un film si comincia sempre dai problemi che ci sono stati la volta precedente: cosa dobbiamo migliorare? Lo scopo è sempre cercare di perfezionarsi. Nel caso di questo film, il fatto che le scatole di scarpe siano state l’ispirazione fin dall’inizio, e che il protagonista le usi per costruire la sua missione, fa sì che il film diventi anch’esso un po’ “a scatole”, è vero. Ma per il resto non è così compartimentato, è più un grande raduno collettivo, una grande scultura in movimento che via via cresce, sviluppa una sua storia, una sua vita. Ci sono tantissime persone che contribuiscono a creare e a raccontare una storia, dunque la storia si compone anche sulla base di quello. Per dire: so che a un certo punto nel film ci sarà Riz Ahmed (che interpreta il principe Farouk, nda), e che Riz sarà sul set dal lunedì al sabato della tal settimana; devi basarti anche su incastri come questo, sulle persone e il tempo che ti sono concessi di volta in volta, per far funzionare tutto.
Hai detto che cerchi sempre di migliorare i problemi del film precedente, ma ti ho sentito dichiarare che dal film precedente ti porti sempre anche un’idea che era come rimasta lì, e che aspettava di essere sviluppata. In questo caso, qual è stata?
Il mio ultimo film, Asteroid City, era ambientato nell’America degli anni ’50, in cui entrava una sorta di elemento mistico. Era il racconto di un progetto scientifico, della realizzazione di un’opera teatrale, ma era collegato a una qualche risposta molto più astratta, che aveva a che fare con la vastità dell’universo. Questo film prosegue un po’ quel ragionamento, oltre ad essere ambientato quasi esattamente nello stesso periodo, anche se lì era il 1955 e qui siamo nel 1950. Ma anche nella Trama fenicia il personaggio principale sta affrontando cose che non capisce, e cerca di capire come aggiustare la sua vita, dato che si trova improvvisamente di fronte alla domanda su quale sia il vero significato dell’esistere in un senso più ampio, rispetto alla semplice missione che deve portare a termine.

Foto: TPS Productions/Focus Features/Universal Pictures
Hai citato fra le ispirazioni di questa storia Citizen Kane, dunque Hearst, e visivamente Antonioni. Io ci vedo anche Howard Hughes, e un generale omaggio a quel cinema – dentro e fuori dallo schermo – fatto di antieroi, o di eroi proprio spregevoli, in un’epoca in cui invece vogliamo solo personaggi buoni ed edificanti. Zsa-zsa Korda non è il cattivo della storia, ma non è nemmeno un eroe.
In effetti è così. Ci sono personaggi molto peggiori di lui in questa storia, tipi molto più oscuri come suo fratello [Benedict Cumberbatch]. Ma è raro avere al centro del racconto qualcuno che sia così dannoso per il mondo. Perché una cosa è avere qualcuno che è solo una persona orribile ma che crea un impatto minimo, un’altra avere qualcuno che è amorale ma che può fare cose eclatanti per esprimerlo. Ma in questo caso c’è qualcosa dentro di lui, fin dall’inizio della storia, che dà la possibilità di una sua evoluzione.
Korda è anche una specie di guru della tecnologia ante litteram, e in questo momento pare un tempismo perfetto. Non so se la tua intenzione fosse quella di essere più politico, per capirci, ma così è stato percepito il tuo film a Cannes. In qualche modo, sembra lo specchio del caos geopolitico e di questi nuovi bizzarri protagonisti dello scenario politico attuale.
Sai, non credo ci sia mai stato un momento in cui uomini così ricchi lavorassero con il governo per i propri interessi in modo così manifesto. Le cose che stanno accadendo davanti ai nostri occhi avvengono ciclicamente da sempre, o forse “da sempre” è un’espressione troppo forte, ma di certo negli ultimi 200 anni o giù di lì. Ma l’idea che un grande uomo d’affari possa operare al fianco di un leader mondiale apertamente e non segretamente, be’, quella è una cosa decisamente più insolita. Quando vedi in un film delle situazioni che ti fanno pensare a quello che leggi sui giornali, è inevitabile pensare che sia voluto. Ma la domanda da porsi è: perché abbiamo voluto scrivere una storia ambientata nel passato proprio in questo modo, e con questo tipo di personaggi? E io per primo non so sempre dare una risposta. Ogni volta che scrivi qualcosa, ciò che stai vivendo in quel momento storico ne fa in qualche modo parte. Penso che sia un processo naturale.
Hai detto che La trama fenicia esplora territori un po’ più dark, rispetto alle tue storie precedenti. E in effetti ci sono molte domande sulla morte, la religione, il “dopo”… Tu e Roman Coppola, tuo fedele collaboratore in scrittura, volevate muovervi proprio in quella direzione?
Penso di aver fatto ormai 11 o 12 film, e ogni volta voglio andare in una nuova direzione. Per me tutto ciò che faccio è in un certo senso nuovo, anche se ci sono cose che possono ricollegare il mio nuovo film agli altri che ho fatto. Fin dall’inizio io e Roman abbiamo percepito l’oscurità di questa storia, ma come qualcosa che ci intrigava. Non ci siamo mai detti: “Rendiamola dark”, è che proprio percepivamo un’eccitazione intorno all’aura oscura del protagonista. Sono sicuro che derivi tutto dalle nostre scelte, ma non è sempre così. Spesso sembra che la cosa esista già e che noi semplicemente la stiamo portando alla luce.
Zsa-zsa e Liesl, padre e figlia: un’altra famiglia disfunzionale, ma il tuo cinema sembra dirci ancora una volta che le relazioni disfunzionali, alla fine, sono quelle che funzionano meglio.
È così. All’inizio la relazione tra loro è quasi inesistente, tutto ciò che c’è tra quei due è una sorta di negoziazione. Ma penso che Zsa-zsa e Liesl siano connessi nel loro DNA, non tanto per ragioni di sangue, ma per la dinamica che creano rispetto a tutti gli altri personaggi. È come se fossero una forza unitaria: lui si rivolge a lei come sua aiutante in “battaglia”, e lei lo diventa con una certa facilità. È lì che nasce il loro essere famiglia, di fatto.
Tu hai una figlia, e anche Roman, e pure Benicio. Anche questo è stato parte dell’ispirazione, hai detto. Quindi la famiglia è ancora un’ossessione, o quantomeno ciò che ti ispira di più?
Ogni volta che si pone la possibilità di esplorare una dinamica famigliare, ci diciamo di non farlo (sorride), perché è un tema che abbiamo già affrontato molte volte. Ma se racconti una storia che parte da un padre e una figlie, be’: è inevitabile tornarci sopra. Forse è una cosa insita in me e in Roman, come uomini e come narratori. Ma ti dirò, non so dirti se la metà dei film realizzati, ma sicuramente tantissimi film hanno al centro una dinamica famigliare, o c’è sempre una qualche forma di famiglia in primo piano. La famiglia è un elemento fondamentale, e anche tutto il resto è facile che diventi una metafora della famiglia.

Benicio Del Toro (Zsa-zsa) e Mia Threapleton (Liesl). Foto: TPS Productions/Focus Features/Universal Pictures
Hai voluto delle vere opere d’arte nel film e a qualcuno – Edward Norton, l’hai detto tu – è sembrato impossibile che potesse esserci un vero Renoir o un vero Magritte sul set. Hai ideato mostre come quella bellissima di qualche anno fa proprio alla Fondazione Prada [Il sarcofago di Spitzmaus e altri tesori], ti dedichi al restauro di classici del cinema… Il tuo essere artista è sia essere un cineasta contemporaneo, connesso al presente, sia una sorta di storico, di ricercatore di altre arti: come tieni insieme questa doppia natura?
Non posso parlare dei registi in generale, ma per molti di quelli che amo parte di ciò che li rende interessanti e professionalmente longevi sta nel fatto che hanno sempre bisogno di qualcosa da scoprire, da condividere. In alcuni registi è evidente. Quando vedi un film di Jim Jarmusch o di Wim Wenders, ci trovi la musica che li ha ispirati, o l’esperienza che Wenders ha fatto in Giappone, o il libro che ha significato qualcosa per lui in tutti questi anni. Se parli con Francis Ford Coppola o Martin Scorsese, hai subito la sensazione che trovino sempre spunti esterni che accendono la loro immaginazione, e quegli spunti li mettono nelle loro opere, creando cose nuove a partire da quelle vecchie. Gran parte di ciò che faccio anch’io è usare ciò che ho raccolto nel tempo, ma cercando di capire come può contribuire a creare una nuova storia.
Quali sono stati gli incontri più importanti per te, in questo senso?
Sai, ce ne sono così tanti… Posso raccontarti questo aneddoto. Noah Baumbach e io, quando ho girato Rushmore, abbiamo cercato di far partecipare al film Mike Nichols. Mike Nichols, lo sai, non è un attore, ma se vedi The Designated Mourner (film di David Hare del 1997 inedito in Italia, nda), scopri che è incredibilmente bravo anche in quelle vesti. Mike Nichols è il centro di quella storia, che è complessa, sfumata, molto divertente… Insomma, lo volevo nel film e gliel’ho chiesto, ma non sono riuscito a convincerlo. Però ha letto la nostra sceneggiatura ed è stato molto incoraggiante. Nel corso degli anni, si è creata questa sorta di tradizione per cui io e Noah Baumbach ogni tanto pranzavamo con lui. Mike ci regalava un po’ del suo tempo, noi gli facevamo delle domande, e questo era tutto. È stata la nostra occasione di partecipare a una vera masterclass, perché quello è stato. Non siamo mai rimasti senza una domanda da fargli dopo una sua risposta, e lui non ha mai esaurito le risposte sorprendenti. Aveva un’intelligenza rara, brillante.
E ora, soprattutto alle generazioni più giovani, è quasi sconosciuto. Se un ragazzo o una ragazza di oggi vedesse Conoscenza carnale…
È un film che ha reinventato tutto, sì. C’era un’ottima sceneggiatura, certo, degli ottimi attori, ma era una storia dai contorni durissimi. E il modo in cui viene raccontata è quasi da film sperimentale: è così spudorato nelle scelte che fa. Mike parlava proprio di questi film che “si mettono in mostra”. Come quelli di Orson Welles. Quei film in cui si vede la grandezza tecnica del regista. A volte sta anche solo nell’esecuzione di un’inquadratura per dare ancora più peso a un’idea, così che il pubblico penserà “Che cosa sta succedendo?”, notando la forma del film, oltre alla sostanza. In Conoscenza carnale quel muro inizia davvero a crollare, capisci cosa voglio dire? Poi negli ultimi film Mike ha fatto scelte molto diverse, è andato in una direzione diciamo più sobria, ma fin dall’inizio i suoi film sono stati pieni di queste invenzioni. Penso a Chi ha paura di Virginia Woolf?, dove ci sono scelte espressive che colpiscono molto, si vede proprio la mano dietro la macchina da presa. Io sono molto d’accordo con Mike, per questo mi piace il cinema di Orson Welles, e quello di Martin Scorsese, o di Bernardo Bertolucci. E ogni film di Ozu. Sono tutti registi davanti ai quali pensi: sono riusciti a fare qualcosa in un modo totalmente diverso, dal punto di vista del linguaggio.
Sei sempre stato, e sei ancora, un regista indipendente, ma com’è cambiata l’industria oggi? Fare un film è davvero come per Zsa-zsa Korda andare in giro di finanziatore in finanziatore a chiedere il 10% qua, il 15% là…?
Il 15% per ottenere poi il 5 (ride). Per me, almeno negli ultimi anni, non è stato proprio così. Ho fatto film, penso a Moonrise Kingdom, pensati perché potessero poi recuperare l’investimento economico iniziale. Poi col tempo abbiamo cercato di ridurre il rischio. Ho lo stesso produttore da molti anni, Steven Rales, con cui cerchiamo di mantenere bassi i budget. La struttura alla base è sempre stata piuttosto snella. Ciò che è davvero cambiato nel tempo è il pubblico. A volte ho la sensazione di confondere gli spettatori, avendo un’identità di regista così forte e riconoscibile. Ad alcuni piace, altri sembrano dire: “Perché fai così? I film non si fanno così. I film sono film e basta. Tu stai facendo qualcosa che risponde al tuo stile, ma che non è un film”. C’è stato un tempo, credo, in cui questo era totalmente accettato, ora a volte mi sorprende che non sia più così. Ma forse sto generalizzando, e in realtà si tratta più che altro della reazione della gente a me personalmente, e ai miei film in particolare.
Zsa-zsa Korda si chiede quale sia il vero significato dell’esistere in un senso più ampio. E io non voglio chiedere quale sia per te, ma con il passare del tempo, i film fatti, le esperienze accumulate, cosa stai cercando ora come significato del tuo lavoro, del tuo essere regista, del tuo occuparti d’arte in forme e modalità, come dicevamo, così diverse?
Prima di tutto, la cosa fondamentale quando finisci un film – o almeno è quello che succede a me – è chiedersi: cosa c’è dopo? Perché io voglio sempre avere qualcosa su cui lavorare, anche se non me sto rendendo conto in quel momento. Voglio sapere che il mio cervello si sta preparando a quello che verrà dopo, perché fare un film è un processo che richiede molto tempo. E quindi cerco di aspettare, sperando che qualcosa accenda una scintilla da cui partirà il progetto a cui mi dedicherò nell’anno successivo, o anche di più. A volte è semplicemente un caso. Non è che mi siedo in una stanza e inizio a leggere sceneggiature, o mi metto davanti alla mia libreria e penso: che cosa posso adattare adesso? Io continuo a sperare che le idee vengano da me, e di solito c’è sempre qualcosa di ancora astratto che era lì in attesa e che poi prende forma, e diventa sempre più chiaro. Per il prossimo capitolo, siamo in qualche modo sulla buona strada (ha annunciato a Cannes che sta lavorando a una nuova sceneggiatura con Roman Coppola e Richard Ayoade, nda). Più in generale, la mia speranza è che un film viva nel tempo, e che la gente torni da me dopo cinque o dieci anni parlandomene ancora. Ma non tanto di quel film in particolare, piuttosto di quel film come parte di un corpus di opere. È così che affronto il mio lavoro.
È quello che mi ha detto di recente Luca Guadagnino: i singoli film contano come parte di un’opera, di un corpo complessivo.
È così, e forse per questo mi piace molto quello che sta facendo Luca, e anche il fatto che stia realizzando così tanti film così velocemente. Da Io sono l’amore in poi ha fatto film bellissimi, e si può in un certo senso vedere lo sviluppo di qualcosa di più grande. Era già evidente fin dall’inizio una sorta di virtuosismo, ma mi piace vedere questa maestria crescere di film in film. Gli ultimi due [Challengers e Queer] sono così diversi l’uno dall’altro, ma entrambi meravigliosi, perfetti. E li ha girati in un anno mezzo, massimo due… pazzesco!