Abdullah Miniawy: «Il capitalismo è ormai la religione del mondo: non posso accettarlo» | Rolling Stone Italia
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Abdullah Miniawy: «Il capitalismo è ormai la religione del mondo: non posso accettarlo»

L’infanzia in Arabia Saudita dove ha studiato a casa invece che a scuola, l’idealizzazione dell’Egitto come terra promessa, l’arrivo in Europa: l’artista sperimentale si racconta prima del live al Lost Festival 2025

Abdullah Miniawy: «Il capitalismo è ormai la religione del mondo: non posso accettarlo»

Abdullah Miniawy

Foto press

Abdullah Miniawy produce e scrive in una forma che assomiglia più alla poesia che alla canzone, suona strumenti tradizionali in chiave contemporanea, usa le lingue come portali sonori attraverso cui raggiungere pubblici geograficamente lontanissimi. Lo abbiamo intervistato in occasione della sua partecipazione al Lost 2025, il festival di arte e musica elettronica che si terrà a luglio al Labirinto della Masone per la sua quarta edizione.

Con l’artista egizianoabbiamo parlato della necessità di ritrovare una qualche forma di spiritualità come via alternativa all’individualismo capitalista, di cosa vuol dire vivere in occidente dopo aver passato vent’anni ad inseguire la libertà d’espressione e del suo rapporto con la lingua araba.

«Sono interessato all’origine delle cose», racconta dal suo appartamento di Parigi. «Ho anche pubblicato un poema dedicato alla prima lettera pronunciata nella storia umana. Al Lost porterò tutti materiali nuovi, suoni freschi, liriche che vogliono a loro volta indagare l’origine della lingua, del suono».

Come sta andando la tua vita?
Devo dire che sta andando bene in questo momento, sono immerso nell’arte. Ho un nuovo amore, quindi sono felice. Cerco di disconnettermi dai social perché sono terribili e cerco di dare il mio contributo al mondo, che per ora è la musica. Non so cosa succederà più avanti, ma per ora sto cercando di scrivere idee, di collezionare momenti e poi quando mi metto a sedere, li produco. Sto anche aspettando la mia nazionalità francese perché ho la residenza qui. A livello personale sono felice, sto bene. Ho un bell’appartamento a Parigi vicino Montmartre.

Abdullah Miniawy – Peacock Dreams أَحْلَامُ الطَّاوُوسِ | Full Album الألبوم كامل

Da quanto sei a Parigi?
Ho lasciato l’Egitto prima per andare a Monaco e poi sono venuto a Parigi. Dopo aver fatto la mia prima esibizione in Francia, mi sono sentito ben accolto. Lentamente mi sono ambientato in città, mi sono integrato, ho capito i loro codici, ho capito le persone, il ritmo, e ora ho il mio proprio ritmo. Ormai sono qui da quasi dieci anni.

Ti senti ancora legato all’Egitto?
Sai, siamo nati con il complesso dell’ingiustizia. Non abbiamo la stessa qualità di vita, non abbiamo gli stessi diritti, la stessa mobilità, non abbiamo le risorse, i teatri, la libertà. A volte chiudo gli occhi e cerco di essere nostalgico. Io sono cresciuto con questo caos identitario perché sono nato in Arabia Saudita, ho passato la mia vita pensando all’Egitto come un posto romantico, ma non era così romantico come lo immaginavo. Quando sono arrivato lì, la Rivoluzione era l’unica cosa romantica che c’era. Sono orgoglioso di questo movimento perché per me la politica ora è al di fuori della mia geografia. Anche parlare è politica, confrontarsi come stiamo facendo noi è così importante per capire il modo in cui vanno fatte le cose.

La tua scelta di fare il musicista è una rarità in Egitto o è qualcosa di comune?
È una scelta super personale perché non c’è una scena più grande e accogliente, musicalmente parlando. Ci sono venti, trenta artisti più interessati a sperimentare e ad avere un suono originale. Ora c’è la nuova fase post-Rivoluzione, c’è la musica trap, tutto il mondo usa l’autotune, ma la mia famiglia è conservatrice, pregano cinque volte al giorno. La musica l’ho appresa dentro casa, ho iniziato a imparare il Corano, poi ho dovuto rompere le regole e creare il mio stile, che è diventato una sorta di folk adattato a una certa realtà.

Non è una cosa così comune fare musica in Egitto perché la famiglia è molto presente e cerca il miglior modello di vita per te. Ti vogliono poliziotto, ufficiale, io per primo ho fatto un’accademia di polizia. Ti vogliono ingegnere, dottore così puoi aiutare la famiglia. È stata una cosa così folle dire ai miei che stavo lasciando l’accademia di polizia per diventare un artista. Ma da quando avevo sedici anni ho sempre condiviso quello che avevo dentro e questa è una qualità per la quale sono molto grato.

Dove prendevi ispirazione quand’eri ragazzino? Certo, c’era già internet, ma non so quanto fosse diffuso da te. Ti affidavi ai tuoi amici, avevi magari un posto di riferimento?
Ho studiato a casa in Arabia Saudita ed è stata un’esperienza difficile, non potevo confrontarmi con altri. Ma quando ci ripenso mi sento fortunato dell’aver vissuto in isolamento, è stato super spirituale e ha creato queste voci dentro di me che sono sempre in dialogo con la mia arte.

Sono del ’94, siamo questa generazione tra internet e non-internet, siamo passati dalle cassette ai DVD a internet. E quando la rete è arrivata ho trovato la mia passione. Ho iniziato a scrivere quando avevo otto anni grazie a mio padre che mi ha trasmesso la passione per l’arabo classico e per me è stata la prima forma di arte. Poi mi sono messo a smontare i computer, volevo capire cos’è questo mostro che viene a casa e, attraverso una finestra, ti fa vedere la realtà. Prendevo il cacciavite per aprire il computer, aprivo ogni singolo pezzo. Poi è arrivata la musica quando avevo dodici anni, ho iniziato con il primo smartphone e i software di musica come Mixcraft.

Ho iniziato a condividere le mie cose attraverso MySpace e una volta ho ricevuto supporto da un collettivo che si chiama Arab League, poi sono andato al Cairo durante la rivoluzione e ho visto che i miei testi stavano andando ovunque, ho iniziato ad essere consapevole di ciò che stavo facendo. La mia ispirazione è stata, come per tutti, innanzitutto la musica pop e lentamente mi sono approcciato a cose più complesse. Poi ho scoperto la musica sufi mentre stavo studiando filosofia, che mi ha ispirato molto. La biblioteca di mio padre è stata così importante per me perché ha creato una forte relazione con la religione e così ho iniziato a scoprire la cultura che c’era dietro. Per me è stato super importante conoscere le regole per poterle rompere.

Abdullah Miniawy - Live session at Musée Dauphinois

Qual è la tua relazione con la musica folk? È un genere a cui senti di appartenere? Hai anche prodotto un pezzo di un’artista italiana, La Niña, che è pazzesca nel recuperare dialetti regionali e strumenti antichi.
Il pezzo è Sanghe e l’ho composto interamente io. Ho tanto rispetto per La Niña e per ciò che sta facendo, per come ha trasformato la sua immagine.
Il folk per me ha una definizione molto larga. Per farlo bisogna assorbire il sapere, bisogna venire da dove vengono le origini di questo suono. Per me è come la poesia pre-islamica, è difficile da trovare perché è poco documentata, bisogna viaggiare in Arabia Saudita per trovarla, ma il sapere è dentro di me.

È qualcosa che hai nel sangue, è difficile da analizzare, ma sto cercando di trovare le parole per tirarlo fuori. Il contenuto è un’altra parte importante del folk, ma il mio contenuto non è folk, è universale, è più spirituale, è un flirt con l’individualismo con cui convivo in Europa. Mi frustrano tutti questi cellulari, la vita moderna, Instagram. Nel mio album ‘Nigma Enigma’, quello prima dell’ultimo ‘Peacock Dreams’ che esce il 23 maggio, critico fortemente tutte queste cose.

Quando descrivi la tua musica, usi tre parole chiave: libertà, religione e rivoluzione. Qual è la connessione tra queste tre voci?
Ci sono alcuni slogan che possiamo portare in vita consapevolmente o inconsapevolmente, e questo slogan è nato quando avevo sedici anni, l’ho sempre tenuto perché è la mia giornata, è il mio viaggio attraverso la libertà di espressione, anche per criticare la religione. Questa è in realtà la mia giornata in tre parole, è esattamente ciò che è successo, è esattamente come sono venuto fuori da un paesino vicino Faiyum. Le persone dopo un po’ si stufano di usare le stesse parole. Ma questo è stato il cuore della mia rivoluzione. Dopo questi anni in Europa ero il primo a promuovere l’ateismo, a scappare da ciò che sono, dalla religione.

All’inizio trovi una piattaforma per parlare liberamente e poi ti chiedi cosa stai facendo qui. Una volta stavo suonando a Vienna e ho incontrato una ragazza di ventitré anni, con l’hijab, ero curioso di sapere come era venuta al concerto, ho iniziato a parlare e ho scoperto che stava seguendo l’Hassan—i Sabbah, un cammino sufi, e ha trovato una sorta di libertà dentro i miei brani. Parlando con lei, ho capito che c’era una comunità dentro una comunità, non c’era solo lei. Anche la nostra realtà oggi non ha più un credo, tutto riguarda l’uomo, il materialismo e questa è la nuova religione. Ma questa non è la vita, poi arrivi a cinquanta, sessanta anni e pensi: “cosa ho fatto?”. Io avevo questo heritage religioso e l’ho perso completamente.

Il capitalismo è diventato la religione centrale del mondo e non posso accettarlo, è qualcosa di cui vorrei discutere senza imporre un’idea. Le nostre parole non sono per sempre, se mi chiami domani forse avrò un’altra prospettiva perché nulla è fissato e nulla è eterno.

Come inserisci la religione nella tua arte, già che per te è così importante?
Prendo alcune ispirazioni, alcune parole. Quando faccio musica o arte entro in un altro spazio mentale e per me questa è la forma più alta di preghiera. A volte chiudo gli occhi e inizio a vedere cose, ma non sono necessariamente religiose. Magari le vedo in lingua classica araba che è la forma più aulica di arabo. Per questo motivo ho una grande fanbase anche in Medio Oriente perché da Iraq, Egitto, Algeria mi ascoltano e mi capiscono, uso una lingua vicina al Corano, ma è anche un modo per entrare nel cuore di questa cultura.

Mi ispiro al Tanakh, alla Torah, alla Cristianità, all’Islam e penso che dovremmo riuscire a creare una sorta di unità spirituale, di collettività. Ad esempio, ero in una chiesa a Venezia qualche giorno fa e mi ha colpito il fatto che parlasse solo il prete mentre le persone ascoltavano. È un atto così semplice, non mi interessa cosa stesse dicendo, a cui non siamo più abituati. Le persone a un certo punto si baciavano, è stato strano sentire un estraneo che vuole baciarti, ma era bello.

Abdullah Miniawy - Danza del ventre رقصة البطن

Di solito è il momento in cui il prete proclama la pace. Le persone che si conoscono si baciano, quelle che non si conoscono si danno la mano.
Per me è stato bellissimo, per questo la religione ha un valore forte per me, anche se stiamo crescendo con tutto questo comportamento individualistico attorno.
Se trovi qualcuno attraente in strada e guardi il telefono vuol dire non sai più come funzionare. La chiesa è diventata più aperta e per me dentro c’è qualcosa. Non mi piace il dogma, ho avuto problemi con la politica, ma tutte queste restrizioni mi hanno spinto a fare di meglio e a continuare questo cammino. A un certo punto ho avuto la tentazione di mollare tutto perché era troppo difficile, mi sono sentito attaccato dalle istituzioni, dalla mia famiglia.

Com’è la scena musicale oggi in Egitto e Arabia Saudita?
In Arabia Saudita c’è fermento, va veloce lì e sono impressionato di quanto siano riusciti in pochi anni a correggere l’immagine e lavorare artisticamente e apertamente su tante cose. È qualcosa che apprezzo. Apprezzo quando le persone cercano di cambiare le cose perché non possiamo essere colpevoli per la nostra storia. Una persona tedesca non può essere colpevolizzata per il passato nazista della sua nazione. Ora mi hanno chiesto di suonare alla Biennale in Arabia Saudita e stanno scegliendo il testo più pesante che ho, un testo anti-religioso. Non è passato il mio profilo alla Sicurezza Nazionale, ma mi hanno chiesto di suonare alla Biennale. È curioso.
In Egitto sono ancora collegato alla scena perché l’Egitto sarà sempre un luogo dove posso condividere la mia arte. I fan mi scrivono. Sono parte di un grande movimento iniziato nel 2011.

Sarà la tua prima esperienza al Lost Festival. Credo che potrebbe piacerti molto perché condividete quella vibe mistica che c’è anche nella tua musica. Porterai un progetto speciale, qualcosa di site specific?
Sì, porto un nuovo progetto. Si chiama “The evens, Rahma” e indaga l’origine del suono e del vento. Lavoro molto con gli strumenti a fiato e ho coinvolto un flautista indiano. Quando il team di Lost Festival mi ha chiamato, mi sono subito concentrato su questa idea e ho cercato di presentarla nel modo migliore. Sono tutti nuovi materiali, suoni freschi, liriche che vogliono a loro volta indagare l’origine delle cose, della lingua, del suono. Ho anche pubblicato un poema dedicato alla prima lettera pronunciata nella storia umana. Da allora sto approfondendo questa idea dell’origine delle cose. Ho solo due date quest’anno in Italia, il Lost Music Festival e la Biennale di Venezia curata da Caterina Barbieri. Ma sono due grandi date.

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