Bresh: Genova per lui | Rolling Stone Italia
Cover Story

Bresh
Genova per lui

Lo abbiamo tirato fuori dalla tana del granchio per farlo parlare del nuovo album ‘Mediterraneo’, ma anche delle radici operaie della sua famiglia, dell’infanzia in Liguria, del trasferimento a Milano con Tedua, di fatalismo e speranza, della voglia di costruire qualcosa di solido in questi tempi incerti

Foto: Lorenzo Formicola per Rolling Stone Italia. Total look Tom Ford

Ci sono artisti che incontri per promuovere un disco e ce ne sono altri con cui ti ritrovi a parlare della vita e delle sue contraddizioni. Bresh appartiene alla seconda categoria. E non perché si sforzi: sembra proprio venirgli naturale. Ti accorgi subito che è uno che ascolta, riflette e poi dice le cose come gli vengono, venate da un’indolenza tipicamente ligure che, a sentir lui, non è un vizio ma uno stile di pensiero più lento e profondo. Uno che mentre discute di musica ti racconta la sua visione della giustizia, del tempo e dell’amore. E che nel nuovo disco Mediterraneo, in uscita il 6 giugno e a cui seguirà un tour autunnale nei palazzetti, mette dentro tutto quello che è diventato e, probabilmente, tutto quello che ancora non sa di essere. «Vengo dalla classe operaia e mi sento ancora parte di quella roba lì», dice con orgoglio, rivendicando un’appartenenza culturale che oggi nel pop e anche nel rap è sempre più rara. «Ma non esprimo le mie posizioni nei dischi. Le ho nella vita, non nelle canzoni. Ma chi si lamenta di chi protesta mi fa incazzare. Protestare è sacrosanto».

Questo contrasto tra presenza e ritrosia, tra fuoco e acqua attraversa tutto il disco e caratterizza la sua personalità. “Non ho scelto quello che ho fatto, sono dentro il corpo di un altro” canta, parlando di come spesso si senta guidato più dagli impulsi che dalla volontà. Eppure, pezzo dopo pezzo, ha costruito un disco che profuma di sonorità popolari italiane, ma pesca anche in altri mari sonori. E parlando con Andrea Brasi, questo il suo nome all’anagrafe, ci siamo immersi nel fatalismo di chi convive con la malinconia, il tutto condito dall’ironia di chi la vita la prende di traverso, come fanno i genovesi.

Sei già impegnato a firmare le copie del disco, quindi ci siamo: come ti senti?
Molto bene, sono contento. Al disco ho lavorato circa due anni e quando si arriva al traguardo è sempre bello, ma allo stesso tempo c’è un senso di vuoto. Dentro di te pensi: «E ora? Adesso che l’ho fatto bisogna farlo ascoltare, chissà le reazioni». Ma sono molto soddisfatto e fiero di avere voglia di fare altre cose. Perché nel presente vedo il futuro e questo mi rende felice.

Se chiudi gli occhi, qual è la prima immagine che ti viene in mente di Andrea bambino?
A piedi nudi in giro per il paese dove abitavo, vicino a Genova (a Bogliasco, ndr), a giocare al mare senza i miei genitori, senza nessuno che mi tenesse d’occhio.

Hai avuto un’infanzia molto libera?
Sì, molto. Ripensandoci è stata così per necessità, i miei lavoravano e ho avuto la possibilità di rimanere in giro da solo a partire dai 6-7 anni. E quindi sì, ero molto libero, un bel vagabondo.

E i tuoi genitori come li descriveresti?
Ho trovato la definizione giusta mentre scrivevo un trailer che ho fatto uscire: mio padre mi ha insegnato la libertà, mia madre a usarla senza invadere quella degli altri. Mio padre era un pochino più ribelle, molto divertito dalla vita, mia madre rappresentava un argine di saggezza. Insieme sono stati un segno più e un segno meno, senza levare nulla al meno.

Cosa facevano e cosa fanno? Perché immagino ancora lavorino.
Mia madre ha ereditato una piccola ditta di ristrutturazioni edili dal nonno, che però è stata immediatamente ceduta. Mio padre ha lavorato al porto tutta la vita. Ho sempre avuto a che fare sia con gli operai nell’ufficio di mia madre, che non era un attico ma più un magazzino, sia con i portuali dell’ambiente di mio padre. Quindi pienamente classe operaia.

Hai detto che allora avevi dei sogni mediocri.
È vero. Il mio sogno allora era di fare il portuale. Devo dirlo un po’ a bassa voce perché, sai, se mi sentono adesso, giustamente mi dicono: «Dai, vieni che ti porto a caricare». Però la verità è quella. Se non avessi fatto musica, avrei lavorato in porto.

Foto: Lorenzo Formicola per Rolling Stone Italia. Total look Valentino

Hai detto di essere cresciuto a contatto con un ambiente operaio, ma oggi ti sembra che esista ancora?
A me sembra che in questo momento siamo un po’ a tutti vittime della Sindrome di Stoccolma nei confronti del potere e dei capi.

In che senso?
Siamo arrivati a giustificare le scelte aziendali fatte ai danni dei dipendenti solo perché il potere è invidiato e gli si permette di tutto. Non voglio fare sociologia spiccia, ma è stata anestetizzata la voglia di far fronte al potere, di far fronte al padrone. Ricordo una frase che mi diceva spesso mio padre e circolava nel suo ambiente: «Non esiste un padrone buono». Anche loro, inevitabilmente, hanno addolcito la loro posizione. Non che voglia fare il purista, però…

Si è rotto qualcosa…
A Genova, la realtà che conosco meglio, i portuali avevano in mano la loro sorte. C’era la voglia di militare, di protestare, di far valere i propri diritti. Mio padre mi raccontava spesso delle manifestazioni in porto. Una valanga di gente bloccava i traghetti. Prendevano i container e li mettevano di fronte allo scalo dei passeggeri, facevano azioni pesanti per far valere le loro idee. Questo atteggiamento è sempre stato un faro per me. Non ho portato avanti quelle lotte, ma sono leggende e racconti che porto dentro di gente che sapeva sognare. E oggi è un po’ deludente vedere quello che succede, perché sembrano non valere più nulla.

Tante battaglie hanno portato a dei cambiamenti.
Almeno ci si provava. Adesso, invece, sai chi mi fa incazzare? Chi si lamenta di chi protesta. Capisco la persona che deve andare a un appuntamento di lavoro e trova la strada bloccata, capisco chi abita a Roma dove c’è una manifestazione al giorno, capisco tutto, ma non capisco chi commenta con frasi come «andate a studiare» indirizzate ai giovani o agli studenti che manifestano e protestano. Quelle reazioni lì non le sopporto. È un’opinione talmente cieca e ignorante che mi suscita violenza. La protesta non è solo lecita e legittima, per me è sacra. E te lo dice un incoerente. Non faccio niente per cambiare la società e patisco l’essere, per ora, così passivo. Anche la mia musica non contiene una protesta sociale, perché so che non sarei in grado di valorizzare certe istanze, quindi preferisco non farlo tanto per farlo, ma mi fanno incazzare le persone che si indignano per chi protesta. Di cosa si indignano, maledetti bastardi?

Pensi che un giorno questi temi finiranno anche nella tua musica?
La musica che faccio rappresenta una sorta di fuga dalla realtà. Non credo di avere gli strumenti per esprimermi con credibilità su certi temi e sono un insicuro quando si tratta di espormi su certi argomenti, quindi provo sostanzialmente a fuggire. Non mi sento pronto a rappresentare la voce di qualcun altro. È vero che ho fatto tantissimi lavori prima di arrivare alla musica, ma non mi sento di essere il simbolo di nulla e di nessuno. E allora l’unica cosa che posso fare è provare a scappare dalla realtà per creare un mio mondo personale e godermi quello che c’è in terra, il mio ideale mediterraneo.

Hai 28 anni, un giorno ti sentirai più sicuro di esporti.
Qualche anno fa ho letto il libro Vieni via con me di Roberto Saviano. C’è un capitolo che si intitola “La macchina del fango”. È un attimo che ci finisci dentro. Qualunque cosa tu dica, rischi di generare l’effetto inverso e quindi, onde evitare che succeda… Faccio musica, non lavoro 40 ore a settimana anche se l’ho fatto, godo di una vita agiata, e quindi, per non fare il cattivo maestro, per ora preferisco farmi gli affari miei che, forse, faccio meno danni.

È vero che Mediterraneo non è un disco di protesta, ma fra le righe si possono leggere delle critiche sociali. Come ne Il popolo della notte: “Questa guerra perversa e per un po’ la seguiamo, ma ci stanchiamo”.
È una provocazione a proposito della nostra percezione dei conflitti. Seguiamo un po’ la guerra, ce la buttano nel piatto mentre mangiamo, ma dopo pochissimo ce ne dimentichiamo. Può diventare un argomento centrale per alcune ore, ne discutiamo, solo che dopo un po’ svanisce e non cambia nulla, infatti la guerra continua.

Foto: Lorenzo Formicola per Rolling Stone Italia. Look Dolce & Gabbana. Jewels Tiffany & Co.

Mi sono andato a risentire Cambiamenti Mixtape con Gughi P del 2012. Avevi solo 15 anni, ma avevi un sacco di cose da dire. Cantavi: “Scrivo notte e giorno, lo faccio con passione”. Sono caratteristiche che mi sembrano rimaste.
È vero, anche se vado a periodi. Non ho voglia di forzare la mia voglia di scrivere e ci sono momenti in cui ho l’elettroencefalogramma piatto. Sai, siamo tutti bombardati dai social e io sono vittima e carnefice allo stesso tempo di me stesso. Ultimamente sto scrivendo anche cose che non hanno a che fare con la musica, non canzoni, ma pensieri miei personali. Per ora è soddisfacente rileggerli, soprattutto quando hanno una sintassi corretta (ride). È un po’ un esercizio mentale che sto facendo e sembra funzionare bene.

Ma a scuola come andavi?
Non bene, ma riuscivo sempre a recuperare all’ultimo per la mancanza di voglia di studiare  d’estate. Ho vissuto la classica ribellione del ragazzo che dice: «Questa roba non mi serve, mi leggo il mio libro per i fatti miei». Quando dovevo scegliere a quale scuola superiore iscrivermi, alla mia richiesta di andare allo scientifico, mia madre mi ha detto, molto onesta: «Guarda Andrea che è un liceo». Infatti poi mi sono iscritto a un professionale. Non dubitava delle mie doti, ma del mio impegno. Sono stato più libero di continuare a impegnarmi nelle mie cose senza ammazzarmi di studio e alla fine è andata bene così, visto che ho sempre avuto un’indole manuale, ho sempre amato costruire cose.

Forse la parola “scientifico” ti richiamava “scienziato”, che era uno dei tuoi sogni da bambino, poi sostituito dal portuale?
Bravissimo! Quell’assonanza lì mi ricordava di quando sognavo di fare lo scienziato. Da piccolo c’è stato un periodo in cui guardavo la serie tv Dexter, mi affascinavano le ampolle colorate e gli esperimenti in cui le cose esplodevano. Mi piaceva tanto il fuoco da bambino. Amavo bruciare tutto. Che è strano, perché il mio elemento principale è l’acqua, ma anche l’aria e il vento. Da bambino il fuoco, moltissimo. Era super affascinante veder bruciare qualcosa.

C’è un aspetto interessante della tua personalità. Da un lato, come hai spiegato tu, ci sono la pigrizia e il fatto che a un certo punto hanno creduto nella tua musica più gli altri di te. Dall’altro sei comunque riuscito a raggiungere risultati importanti. Allora, qual è il segreto dell’apparente indolenza di Bresh?
Forse un latente senso di colpa. Nel senso che, essendo genovese e ligure, non posso fare a meno di sentirmi fortunato. Quando riesco in qualcosa lo considero culo. Un po’ di fortuna serve, ma ho sempre cercato di prendere il meglio dagli eventi che mi capitavano. Sono uno che guarda il bicchiere mezzo pieno e cerco di costruire una mia personale trama immaginaria. All’inizio ho fatto musica per scherzo, però a qualcuno è piaciuta e allora ho continuato. Ho sempre pensato che sarebbe stato impossibile unire la musica al calcio, due mie passioni che consideravo molto distanti, invece poi è arrivata Guasto d’amore. Quindi il mio film, che si costruisce scena dopo scena, continuo a vivermelo come se la trama fosse già scritta. Mi chiedevi se ho un segreto, no? Non credo di averlo, forse vivere così.

Mi è capitato di intervistare Gino Paoli, tuo conterraneo, e anche lui ha ammesso di essere pigro e che «nella mia vita non ho mai cercato niente, sono sempre rimasto seduto sotto l’albero in attesa che cadesse il frutto». È una caratteristica di voi genovesi?
È un tratto di noi liguri, ne sono convinto anch’io. Ma c’è un motivo. Noi abbiamo cento difetti più degli altri, ma non facciamo le cose per interesse, non forziamo la creatività per trarne un vantaggio a tutti i costi. Odiamo auto-costruirci un personaggio, per cui tendiamo a essere più schivi ma veri, non amiamo metterci al centro dell’attenzione. Che non vuol dire non avere ego. È una diversa forma di ego che riconosco quando vado in studio e non riesco a forzarmi per scrivere una canzone. Aspetto che esca. Se quel giorno non ce la faccio, me ne vado al mare.

Un altro tratto tipicamente ligure lo ha spiegato bene Rkomi: «Io, Bresh e Tedua eravamo ossessionati dall’idea di lasciare il lavoro troppo presto. Vedevamo che c’era uno spiraglio, ma finché la porta non è stata aperta, quel passo non l’abbiamo fatto».
Esatto, avevamo bisogno di cose concrete. Abbiamo sempre avuto tanta fantasia, perché comunque ci vuole tanta fantasia per evadere, ma con un piede nella realtà. Cioè, come quando mi chiedono che album è questo per me: è un album per sognatori con un piede ben piantato nella realtà.

Guardandoti attorno, ti sembra che i giovani abbiano fretta di vivere subito un mondo di fantasia?
Mi sembra di sì. Non voglio tarpare le ali a chi, a differenza mia, ha voglia di lanciarsi nel vuoto perché anche quella è una forma di rischio che apprezzo. Però va mischiata con l’umiltà e con la consapevolezza in sé stessi, col farsi tante domande, col conoscere il tessuto sociale da cui si viene e a cui ci si rivolge, col conoscere l’ambiente in cui si va a lavorare. Alla fine ognuno è artefice del proprio futuro, non c’è una sola strada giusta per tutti. Quindi bravi loro. Se prenderanno delle scottature, saranno bravi a superarle? Io per paura delle scottature vado coi piedi di piombo.

Foto: Lorenzo Formicola per Rolling Stone Italia. Total look Dolce & Gabbana

In questo senso è indicativo come, a 19 anni, vai a Milano e ritrovi Tedua e Rkomi, però dopo qualche tempo decidi di tornare indietro. Una scelta in controtendenza.
È vero, però è stata una scelta necessaria. Nel senso che io lavoravo, come ti dicevo prima. Ho sempre lavorato prima del 2019. Ho passato quattro anni in diversi posti, magari con dei buchi di mezzo, ma ho sempre fatto altri lavori. E quindi Genova, in quel caso lì, mi dava il lavoro necessario a vivere. Ho lavorato in diversi bar, che mi hanno dato libertà, e in più Genova mi ha consentito di respirare rispetto a Milano, che spesso toglie il fiato. Una scelta lungimirante, perché per trovare se stesso uno ha bisogno di tornare a casa.

Tornare a casa per risentire la voglia di scappare?
Giocare su quel balance lì. Torni, ri-apprezzi, ri-disprezzi, scappi e ti rimetti in gioco. È un ciclo che non finirà, secondo me. Giusto la morte ci leverà questo tira e molla.

C’è un’immagine che rappresenta il rapporto con Tedua e Rkomi in quel periodo?
Ne ricordo due in particolare. La prima è quando sono arrivato a Milano per la prima volta, a settembre, appena finita la scuola. Con Mario (Tedua, nda) ci portammo delle borse di viveri e persino delle lampade. Ci venne a prendere in stazione Rkomi con la sua Panda. E poi i mesi in cui ho dormito nel letto matrimoniale con Mario. Ho vissuto per due anni in un letto matrimoniale anche con Vaz Tè in una casa con due stanze. Non abbiamo mai litigato. È stato un po’ il nostro Vietnam.

Spesso, quando si pensa all’affiatamento di una scena artistica, si pensa solo alla musica e alle collaborazioni, mentre invece, come racconti, dietro ci sono anche rapporti umani.
Esatto, perché credo che sia bello anche questo del nostro percorso: essere riusciti a creare prima di tutto rapporti umani disinteressati. Non è scontato e lo posso dire davvero con certezza, senza raccontare favole. Anche perché, comunque, va avanti da 15 anni questa cosa qua, quindi dai, un po’ di basi le abbiamo messe per poter dire una roba del genere. Abbiamo creato una compagnia di amici più che una crew musicale. È un piacere stare assieme anche senza dover per forza parlare di musica.

Nella Drilliguria, rispetto ad altre realtà, sono stati pochi i dissing e le spaccature, o sbaglio?
Al massimo ci sono stati piccoli screzi che si sono chiusi con la voglia di essere amici prima ancora che di essere colleghi. Quindi cerchiamo di mantenere questa roba qua il più possibile coesa. Poi, ovviamente, quando metti sei, sette, otto, nove galli in un pollaio ci sta anche che si accenda la discussione, ma per il momento siamo ancora molto uniti.

Alla vecchia scuola genovese rappresentata da De Andrè, Tenco, Paoli e Bindi che cosa ruberesti?
Tutto, dall’anima alle voci al talento. Però, pensandoci, se dovessi scegliere solo una cosa, ruberei il periodo storico senza i social.

È strano detto da un quasi nativo digitale.
Lo so, ma invidio il fatto di aver vissuto la loro esistenza senza telefonini e senza social.

E invece della nuova scena genovese, cioè i tuoi amici e colleghi?
Io sono strafan di tutti loro e anche strafan delle nostre differenze. Che è quello che poi ci ha dato modo di non invidiare il talento degli altri. Chi ci ascolta con attenzione capisce che abbiamo tutti stili diversi e io vorrei continuare a mantenere queste differenze, così nessuno pesta i piedi a nessuno.

I cantautori di ieri come quelli di oggi, al di là del genere, hanno quasi sempre l’amore al centro delle loro canzoni. Hai detto che l’amore sarà un fulmine che ti darà energia e ti polverizzerà. Sei ancora di questa idea?
Forse ora sono più disilluso. L’amore fa paura. Ti segna sempre tanto, difficile che lasci indifferenti. Io adesso sono felicemente fidanzato, amo la mia ragazza e sono felice di stare con lei, ma c’è sempre un po’ il timore di quello che potrà succedere. C’è anche chi dice che si tratta soltanto di un fatto fisiologico, una convenzione, una illusione di felicità, facendo fatica a distinguere tra amore e amicizia, insomma è tutto molto labile e quindi difficile da definire. Ecco, forse l’atteggiamento più giusto per approcciarsi all’amore è non parlarne. È troppo difficile descriverlo, inscatolarlo con delle parole. Quindi è sempre meglio metaforizzarlo.

L’hai metaforizzato in Guasto d’amore. Una provocazione, ora che è l’inno del Genoa calcio: come ci si sente a essere il Venditti rossoblu?
Questa è una grandissima provocazione, che apprezzo ma non posso avallare. Però dai, a parte l’enormità della cosa, ne sono molto felice. Io dico sempre che è come infilare un piumone dentro un sacchetto della farmacia: è una roba troppo grossa, che non mi entra ancora in testa. Esploderei se dovessi farla entrare tutta questa immensa soddisfazione. Il guasto d’amore è un po’ questo, l’avere un amore disinteressato che non riguarda per forza donne o persone. Quindi è amore anche quello? È senso di appartenenza e basta? Non lo so. C’è chi dice che è superficiale parlare di una squadra di calcio associandola all’amore. Anche se poi in Italia non lo è, come non lo è in Argentina o in tutto il Sud America. Ma se ci pensiamo bene, in questo senso, l’amore continua anche se ti tradisce. E forse l’amore altro non è che il sentire un fortissimo senso di appartenenza in grado di completarti. Questo per me è l’amore disinteressato. Io l’ho trovato sicuramente nel tifo, oltre che negli amici.

Foto: Lorenzo Formicola per Rolling Stone Italia. Look Issey Miyake. Scarpe Jimmy Choo. Jewels Tiffany & Co.

A Sanremo, un evento dove da ligure giocavi in casa, hai scoperto qualcosa di nuovo?
Ho capito che, nel momento del pericolo, il mio corpo entra in modalità sopravvivenza. In questo modo cancella molte interferenze e le lascia fuori. È un po’ come gli AirPods: copia il rumore fuori e lo mette in negativo, e ti lascia in silenzio. Nel momento del pericolo mi autoproteggo in questa maniera. Mi è successo anche a Los Angeles durante una rapina: sono entrato in una modalità tipo super vigile e super lucida.

Sanremo accostato a una rapina è la prima volta che lo sento.
(Ride) No dai, aggiungo che Sanremo è stato bello, sono stato facilitato dal fatto di essere al mare, in un luogo simile a casa mia, di avere gli amici intorno e di essere più spensierato di tanti altri concorrenti. Non avevo nulla da perdere, ma solamente tanto da dimostrare per quello che sono, non solo come Bresh ma anche come Andrea.

Per quello, oltre al tuo brano in gara La tana del granchio, nella serata dei duetti hai scelto di portare Creuza de mä con Cristiano De Andrè?
È stata una strategia per nulla commerciale, ma era la cosa che più mi rappresentava in quel momento e che sapevo fare meglio. Quindi, a discapito di ogni risultato, ho fatto quella scelta. Per non fare un Sanremo di sola immagine, ma per fare un Sanremo di personalità.

In questo legame con la tradizione mi pare che voi genovesi abbiate parecchie affinità con gli artisti napoletani.
I genovesi e i napoletani, seppur molto diversi, hanno questo campanilismo che li contraddistingue. Anche un po’ antipatico per altri italiani.

C’è anche un po’ di invidia da parte di chi non ha così tanta storia?
Verso i napoletani un po’ di più, dei genovesi non lo so. Però sicuramente ci piace cantarcela e suonarcela. Ne siamo consapevoli. Ci fa molto ridere questo, devo dire la verità. Siamo particolarmente autoironici su questi aspetti. Infatti, con tutto il rispetto per i paragoni, chiamano Genova la Napoli del nord perché non siamo percepiti come stacanovisti o raffinati. Ma c’è anche di più, come l’atteggiamento di ribellione verso il potere. Genova e Napoli sono città molto ribelli, a modo loro. Genova ha sempre avuto questa polemica interiore, questo fuoco di discussione su tutto. E quindi sì, siamo simili. Forse ci uniscono il mare e il porto.

Veniamo a Mediterraneo. Già dal titolo è una dichiarazione di appartenenza, però si sentono anche influenze di altri mari in giro per il mondo.
È vero e lo è grazie ai musicisti con cui lavoro, che sono Shune, Dibla e Jiz. Condividiamo la voglia di mettere tanti strumenti sulle basi pop e rap, già presente in Che io mi aiuti. Banalmente, partendo da una chitarra o da un piano, ci piace arricchire le produzioni con sonorità da tutto il mondo. Il sound sudamericano, ad esempio, è molto affascinante e abbiamo attinto anche da quella roba lì. Perché, comunque, il Mediterraneo è un luogo fisico, ma è anche un luogo dell’immaginazione, della mia immaginazione, dove si mischiano tante culture, tante differenze, tante facce della stessa medaglia. E quindi, la ricerca di suoni mi piace. È musica popolare, alla fine, no?

Una riflessione che colpisce, nonostante tu sia ancora giovane, è quella sul passaggio del tempo in Altezza cielo con Kid Yugi.
Lo sento particolarmente questo passaggio. Non voglio fare il pesantone, ma in quella canzone si parla di un’entità che non deve essere per forza Dio che ci assiste negli errori e nelle vicissitudini terrene, nonostante sappia già il finale. Come dire, c’è qualcuno che sa già dove stiamo andando a finire e nonostante questo ci guarda e ci lascia sbagliare. Forse la chiave è andare avanti e sopravvivere a questo tempo che passa. Sarà ancora un atteggiamento un po’ ligure? Andare avanti portandoci questa croce sulle spalle e cercando di sopravvivere. E maledetto lui, che guarda e sa già tutto quello che stiamo per fare, ma non sembra intervenire.

È una visione molto fatalista.
Quando sai che sto per inciampare, levamelo il ramo da terra, no? Invece no. Parlando con un amico qualche giorno fa gli ho spiegato che secondo me esistono due modi per vivere la vita. Si discuteva di malessere interiore e in fondo di depressione. Insomma, c’è il periodo in cui sali su una scala altissima, quindi hai la possibilità di analizzare la tua vita dall’alto e cerchi di capire quello che sei, dove finirai, quale sarà il tuo futuro. Ma cadi in depressione perché dall’alto non vedi altro che formichine, quello che siamo, che non lasceranno un segno, di cui non resterà memoria, che nascono e muoiono a milioni. Se allarghi la linea del tempo e guardi le cose dall’alto, siamo proprio miseri e insignificanti, no? E quindi, da quella visione alta si cade in depressione.

E il secondo modo per vivere?
Guardandosi intorno da una posizione più bassa, che è quella della sopravvivenza. Quella che ti fa avere dei paraocchi, utili ad andare avanti, a divertirti fottendocene di quello che sarà, che ti fanno continuare giorno per giorno a trovare qualcosa di bello per costruire il nostro ambiente ideale, che in fondo è la nostra casa. Ecco, poi c’è una terza scorciatoia a metà molto ligure che è l’ironia. Scherziamo su tutto, anche le cose serie.

Il genovese effettivamente è dissacrante.
Proprio così, il genovese dissacra, prende per il culo anche argomenti straimportanti e si lamenta costantemente, ma sempre in chiave ironica. Queste forme di fatalismo ma anche di speranza sono contenute anche nel mio album, fondamentalmente.

Foto: Lorenzo Formicola per Rolling Stone Italia. Look Louis Vuitton. Scarpe Jimmy Choo. Jewels Tiffany&Co.

In Dai che fai canti: “Non ho scelto quello che ho fatto, sono dentro il corpo di un altro”.
È quando metti il pilota automatico e ti fai guidare dagli impulsi. Alla fine sento nel corpo, a livello fisico, degli impulsi, mi accorgo quelli a cui reagiscono meglio, e li seguo.

Un po’ come in Erica con Sayf, dove spieghi: “Ho comprato l’amore pensando a te”? Mi ha ricordato, per disincanto, La mia libertà di Franco Califano.
Hai ragione, c’è del Califano in quell’atteggiamento alla vita lì. È un po’ un’alzata di spalle. Poi non è necessariamente reale quella storia, però affronta un argomento che è quello della differenza tra l’amore sessuale e quello sentimentale. È un argomento che riguarda tutti, senza nasconderci dietro a un dito. Ci tengo a dire che io, in amore, cerco di essere il più serio possibile, in qualche modo lo sono, senza stare a fare troppa scena da questo punto di vista. Però, comunque, è simpatico immaginarsi un quarantenne o cinquantenne che viene lasciato e si lancia in un amore frivolo e, appunto, anche a pagamento, ma che quando finisce si ributta subito a pensare al grande amore sentimentale, alla storia con la moglie. Mi piaceva riflettere, in chiave ironica, sulla differenza tra un amore sessuale e superficiale rispetto a un amore ampio e contemplativo, tra la condizione della solitudine e avere un partner per sempre.

Un altro pezzo originale, anche per la collaborazione con Achille Lauro, è Il limite. Tra l’altro sei riuscito a breshizzare lauro, invece di esserti fatto laurizzare
Se ci sono riuscito mi fa piacere, ma devo ammettere che ho sempre ascoltato tanto Achille Lauro, sia in passato che adesso, e quindi in un certo senso è stato un’ispirazione. Ha una poesia street molto riconoscibile, non usa vocaboli banali, non tratta argomenti triti e ritriti. È molto graffiante e crudo, ma nello stesso tempo poetico. In più, come me, anche lui ama la melodia e i ritornelli. Ci siamo trovati umanamente prima ancora che artisticamente. Abbiamo trovato un bel punto d’incontro in quel brano: io l’ho iniziato cantando con la chitarra e lui ha aggiunto il ritornello. È un po’ la mela che cade dall’albero di cui parlavamo prima. Eravamo lì e l’abbiamo raccolta insieme.

Non manca neppure un pezzo dedicato a Milano, Torcida, sulla città che si ama e si odia.
Milano è una città che, quando ci sto per un po’, mi fa continuamente domandare: ma io che cazzo continuo a fare qui? Ci sto anche se non mi fa stare bene, anche se vedo gli altri non stare bene. Però racconto quello che mi ha dato, come in una sorta di parco giochi a tema. Milano per me è un errore che devo continuare a perseguire, ma è un errore necessario. Per generare lavoro, denaro e combattere la pigrizia.

Senti, ma qual è stato il concerto che hai fatto con meno pubblico?
Ce n’è stato uno in particolare. Ho fatto un live a Genova bellissimo, con migliaia di persone, un’ondata di affetto enorme, il live più bello della mia vita. La data successiva è stata in Sicilia, dove non è che la mia fanbase ai tempi fosse così sviluppata, e c’erano meno di 200 persone. Ma è stato bello anche quello, perché sono situazioni che ti fanno crescere. E poi la gente è stata splendida comunque. Sai, io guardo sempre il bicchiere mezzo pieno. Ho conosciuto meglio dei fan con cui ho anche legato.

E sulla diatriba tra Auto-Tune sì e Auto-Tune no, dove ti schieri?
L’Auto-Tune è uno strumento che ha dato la possibilità a tanti ragazzi, che magari non avevano la fortuna di avere una bella voce, di esprimersi e realizzare brani bellissimi. Meglio chi canta con l’Auto-Tune degli interpreti che non scrivono i loro brani. È un modo per far partire tutti dallo stesso livello, poi vediamo chi arriva. Capisco il cultore del bel canto, ma credo che nella musica, come in tutto, ci siano momenti per ascoltare una cosa e momenti per ascoltarne un’altra. Pensa ad artisti come Thasup o Faccianuvola, che fanno musica anche grazie all’Auto-Tune, realizzando brani sperimentali, fighissimi e visionari. Ti può piacere o meno, ma devi renderti conto che c’è una scrittura dietro. Una cosa non esclude l’altra.

Prima hai detto che avresti preferito vivere in un’epoca senza social. Ma tu hai sofferto o soffri questa ansia dei numeri?
Provo a non pensarci, però indirettamente un po’ tutti siamo controllati dai numeri. Fa parte delle nostre giornate. Non mi ritengo un boomer, ma neanche fortissimo a lavorare con i social. Quindi sì, magari la vedo un po’ come una carenza mia personale. Al di là di questo, sticazzi. L’importante è avere gente ai live, che il disco vada bene e il resto fanculo. Anzi, se riesci a ingannare l’algoritmo in questa maniera, meglio ancora.

Lucio Corsi, che ha usato i social relativamente poco, ha dimostrato che si può arrivare ovunque anche senza essere sempre connessi.
Ma certo, perché poi la verità si vede ed è quella che arriva alla gente. Sai, io sono convinto che avere troppa cura dei social abbia un effetto inverso, perché si nota il fake. Tanti non hanno voglia di mettersi davanti a una videocamera, che è un’arma che non vogliono puntarsi addosso. Non è così meritocratica come sembra questa roba. Se uno ti ascolta, compra i dischi e viene ai concerti, affanculo i social. In qualche modo bisogna usarli senza esagerare, ma sono curioso di vedere se la bolla esploderà o continuerà a lungo.

Il tuo desiderio, per il futuro, è sempre una casa al mare e lavorare meno possibile, ma continuando a fare qualcosa perché non fare nulla è pericoloso?
Ribadisco: non fare assolutamente nulla è pericolosissimo. Ti fa deprimere. È una anestesia che ti fa collassare. Se ci penso, mi vengono in mente le persone che a un certo punto vanno in una fattoria, accudiscono gli animali, fanno crescere l’orto. Sono cose banali, ma alla fine si passa sempre da lì quando si decide di isolarsi veramente. Si torna in qualche modo alla natura. Per me rimarranno sempre l’interesse per la lettura, il cinema, la musica, ma non necessariamente con l’ansia di far leggere, vedere o ascoltare le mie cose al pubblico.

C’è qualcosa che non farai mai nella vita?
Andare a vedere la Sampdoria (ride).

Ora che rischia un’altra retrocessione è come sparare sulla Croce Rossa…
Hai ragione e poi non voglio sempre parlare di calcio… Sicuramente non mangerò più il coriandolo, mai metterlo nelle pietanze.

Immagino le conseguenze, ma forse era meglio la risposta sulla Sampdoria…
Ok, ma voglio mettere in guardia tutti che il coriandolo è il diavolo! Ecco, forse la risposta più sensata è questa: limitare la mia curiosità. Questo non me lo vedrete fare mai.

***

Photographer: Lorenzo Formicola
Art Direction: Leftloft
Producer: Maria Rosaria Cautilli
Fashion Editor: Francesca Piovano
Talent Personal Stylist:: Michele Potenza
Stylist Assistants: Nicolò Cattani, Alessandro Pellegrino
Hair Stylist: Cristian Guardino
Make-Up Artist: Sofia Caspani
Director/DOP: Ramon Branda per 24k Film
Camera Operators: Luca D’Onofrio, Sara Colombo
Photographer Assistants – Lights: Filippo Candotti, Simone Fico
Photographer Assistants – Digital: Manola Casciano

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