Cesare Cremonini
Prima del palco
Ecco che cosa succede prima dell’ingresso in scena e della trasformazione da cantautore a fantasista di una squadra formata da decine di persone. Lo abbiamo marcato a uomo a Lignano e Milano per raccontare il dietro le quinte del tour negli stadi
Foto: Greg Williams, per gentile concessione di Cesare Cremonini
Un cenno, persone che si abbracciano e si guardano negli occhi, un discorso motivazionale, un urlo che si trasforma in un mantra: «Perché noi siamo quelli di Alaska Baby!». È l’immagine che condensa i momenti che ho passato vicino a Cesare Cremonini per scoprire che è in missione per conto della musica. Sembra retorica, ma il protagonista di questa storia ne è fermamente convinto. Dopo 25 anni di carriera, vuole persuadere di questa sua vocazione tantissime altre persone. Più di mezzo milione, stando ai biglietti venduti per le 13 date del tour, tutte sold out, che però non rendono comunque l’idea. Tanto che, poco dopo la partenza, sono già stati annunciati quattro nuovi concerti.
Così, per capire meglio questo fenomeno, che con l’ultimo disco sembra aver sedotto tutti, anche colleghi come Jovanotti, Elisa e Luca Carboni o campioni dello sport come Valentino Rossi e Sofia Goggia, ho cercato di stargli accanto per due giorni fra la data zero di Lignano Sabbiadoro e la seconda di San Siro. Un viaggio con un artista atipico, un po’ cantautore e un po’ popstar, perfetto anello di congiunzione fra l’epoca analogica e quella digitale, in ideale equilibrio tra l’ultima sbornia della discografia anni ’90 e le fluide incertezze di questi anni ’20.
A Lignano vengo accolto da 28 gradi, ma sono 55 quelli percepiti all’interno dello Stadio Comunale G. Teghil. Nonostante il caldo infernale, la macchina organizzativa del Cremonini Live 25 è un brulicare di addetti ai lavori che si muovono senza sosta fra la pancia dell’enorme palco e gli spogliatoi dello stadio adibiti a uffici. Questa data potrebbe sembrare una formalità, in realtà è il test drive per questa gigantesca produzione che, da ora in poi, non potrà più permettersi di sbagliare. Ma Cesare dov’è? «Non può venire prima di un certo orario», mi spiegano, i tecnici devono prima preparare la macchina del concerto. Vado a trovarlo in hotel in centro a Lignano dove un maggiordomo in candida livrea bianca sta innaffiando le piante. Lì conosco Willy Dorini, che si occupa della sicurezza del cantante dal 2018. «È la sua ombra», mi dicono. Dove c’è Willy c’è Cesare. Stile hip hop e sorriso sempre spianato. E Cremonini? Ci attende in terrazza, dove per fortuna tira una leggera brezza ristoratrice.
Esce dall’ascensore, indossa una tuta con il cappuccio, sembra essersi svegliato da poco e appena mi vede esclama: «Mi ricordo di te, ci siamo già visti, no?». L’occasione era stata l’uscita di Alaska Baby, quando mi aveva detto di sentirsi di nuovo un esordiente. Un esordiente che, gli faccio notare, si appresta a un tour che ha bruciato mezzo milione di biglietti in pochi giorni e sta per esibirsi per due volte a San Siro, il tutto con una produzione mastodontica per gli standard italiani. Ma lui, con il suo classico intercalare bolognese che rende tutto più felpato, smorza gli entusiasmi: «Non bisogna lasciarsi impressionare dalle dimensioni dello show. Sono importanti, ma è un percorso a cui si arriva nel tempo». Gli chiedo se ci si abitua. «È come la MotoGP, la prima volta caschi e poi impari. San Siro è proprio la MotoGP dei live, ma la squadra è fondamentale. Da anni metto al centro la squadra e cerco di non farmi attrarre troppo dalle spettacolarizzazioni. A chi ama la musica dico sempre che anche in questi concerti in cui c’è uno show costruito, l’audio dev’essere al primo posto. Sembra un paradosso, ma è quello per cui lavoriamo».
Cremonini sorseggia un caffè, fuma una sigaretta, beve un bicchiere d’acqua, parla e poi ricomincia il giro: caffè, sigaretta, acqua. Continua a spiegarmi perché, nonostante le apparenze, il suono non vada trascurato: «Dopo aver lavorato mesi come un architetto per studiare l’interazione delle canzoni con la messa in scena, l’ultima riunione dev’essere sulla musica. Ai ragazzi ho detto: da adesso finalmente torniamo a fare quello che sappiamo fare. Io preferisco rinunciare a una passerella in più per dare valore al suono e ai professionisti che ci lavorano. Allora c’è un karma positivo». Anche qui, sembra banale, ma «ho iniziato ad avere grandi risultati quando ho messo al centro l’audio».

Foto: Greg Williams, per gentile concessione di Cesare Cremonini
Cesare scalpita anche perché sta per scoccare l’ora in cui potrà raggiungere il palco, dopo le 18. Sorseggia un altro caffè, fuma un’altra sigaretta, beve un altro bicchiere d’acqua e mentre scendiamo lo stuzzico facendogli presente che alcuni trapper dal vivo si accontentano di casse gracchianti nonostante di fronte abbiano folle adoranti. «È una tendenza internazionale, l’Italia riflette quello che succede nel mondo. Siamo artefici del nostro destino, ma anche carnefici nell’imitare gli altri. Io preferisco valorizzare i nostri riferimenti. È un bene che esistano altre forme di espressione da parte dei ragazzi, non ci può essere un pubblico di un solo tipo, più è vario e più ne beneficiamo tutti. Ogni tanto, però, è bello anche tornare a vedere Bruce Springsteen. Devi poi essere bravo tu a mischiare le carte nella maniera opportuna».
Saliamo sul van. Siedo vicino a Ginevra Gulinelli, da 18 anni al suo fianco prima come ufficio stampa e dal 2020 come manager. A Cesare confesso che ho riascoltato tutta la sua discografia post Lùnapop, lui mi guarda stupito ed esclama: «Cazzo, avrai sentito come mi è cambiata la voce!». Effettivamente è un cambio notevole, da una acerba a una molto più ricca di sfumature. Stiamo per arrivare allo stadio, ma Cesare sgancia una delle sue dichiarazioni come se fosse la cosa più normale del mondo: «Sai, sono convinto che il mio compito nel mondo della musica non sia la carriera, scrivere le canzoni migliori, che la gente sia contenta di me, andare in classifica, diventare un intellettuale o guadagnare più soldi». Ah no? E qual è? «Sono tutte cose che mi piacerebbe accadessero, ma il mio primo compito è tenere insieme i valori e le esperienze di una generazione che ha assorbito la migliore musica dagli anni ’60 ai ’90, riuscendo a traghettarla nel presente e nel futuro rimanendo contemporanei. Lo sento come il mio compito nel mondo della musica. Se non puntassi a questo, non proverei soddisfazione in tutto il resto».
Cremonini si prepara alle prove, io vado a bere qualcosa al catering e incontro il suo insegnante di fisarmonica. Sì, avete capito bene. Dopo essersi appassionato allo strumento, non ha chiamato un musicista a suonare con lui, ha chiesto a Salvatore Cauteruccio di insegnargli da zero. «È molto portato», esordisce. E anche lui si stupisce dell’atteggiamento: «È strano per uno che non è un ragazzino, ma un artista affermato». Sembra aver bruciato le tappe: «Non è neanche un anno che gli faccio lezione ed è autonomo». In più si compiace dell’effetto emulazione: «È una bella storia che tanti giovani potrebbero imitare».

Foto: Greg Williams, per gentile concessione di Cesare Cremonini
Le prove scorrono senza intoppi: Elisa abbraccia Cesare e i due mostrano di avere un grande affiatamento, mentre per Luca Carboni, Cremonini dimostra un immenso rispetto per come lo ascolta concentrato e lo osserva mentre si avvia verso i gazebo in attesa del suo turno, come a non voler perdere neanche un gesto di un artista di riferimento.
Al ritorno, sempre in van, gli accenno a un parallelismo fra scuola emiliano-romagnola e napoletana, che mantengono un legame fra generazioni. Anche perché lo sperimenterà durante le tappe del tour, visto che si esibirà anche al Dall’Ara di Bologna (che lo ha riabbracciato in due concerti) e per la prima volta al Maradona di Napoli, dove non tornava da 25 anni. «Sono d’accordo ed entrambe sono state centrali nella musica, da Lucio Dalla a Pino Daniele. Lì non esistono industrie discografiche, ma esistono delle industrie culturali. E non poggiano su certi nomi, ma sulla gente. Le regole le dettano le persone che abitano queste città e sono ancora più severe. Da discografici, manager o promoter ricevuti stimoli relativi al mercato, ma sia a Bologna che a Napoli se abbandoni un certo tipo di valori ed etica, la gente non ti appoggia più. In queste città gli artisti sono in osmosi con le persone, non sono ingranaggi». Ci salutiamo e ci diamo appuntamento a San Siro.
È il giorno del secondo San Siro e allo stadio ne approfitto per conoscere lo staff del cantante. La manager gli è sempre accanto, anche quando è un po’ distante. E con Cesare, come ho potuto notare, comunica con gli sguardi. Ginevra ha il piglio di chi deve prendere delle decisioni e quindi poco tempo per trattare, e mi incalza: «I giornalisti sono interessati a sapere come si prepara un artista, che allenamenti fa, cosa mangia, se fa meditazione, ma sempre meno scrivete dell’apparato di professionisti che sta dietro alla musica».
Cesare ha trasferito la sua ossessione all’entourage. Non hanno tutti i torti, visto che questa produzione prevede un palco largo 65 metri e alto 27, con 900 metri quadrati di led, 700 corpi illuminanti, un laser da 270 watt, 40 macchine del fumo. A San Siro tutto ciò è arrivato grazie a 46 bilici e 15 camion per la strumentazione tecnica, con 200 persone impegnate. Cesare, però, fino alle 18 non potrà arrivare: «Ci sono delle regole che prima non avevo. È una questione di rispetto delle altre professionalità, però col palco ho un legame forte e quindi per me è una sofferenza aspettare l’orario in cui vederlo. Molto di quello che succederà sul palco dipenderà da me e molto di quello che mi succederà dipenderà da quell’oggetto lì».

Foto: Greg Williams, per gentile concessione di Cesare Cremonini
Negli uffici è un viavai di addetti ai lavori con varie mansioni, da quelli che hanno montato il palco in quota e che sembrano veri e propri scalatori a chi si occupa dei materiali promozionali, testa china a selezionare e pubblicare foto e video. Qui conosco il direttore creativo e stage designer Claudio Santucci, che mi illustra in che modo lo spettacolo si trasformerà in un viaggio verso l’Alaska anche grazie all’apporto della agenzia londinese NorthHouse, nota tra le altre cose per aver lavorato all’halftime show del Super Bowl, con i Coldplay e con Beyoncé: «Un enorme schermo panoramico da 65 metri, alternerà cinema e architettura mobile, mentre le luci di Mamo Pozzoli accompagneranno e commenteranno le canzoni, diventando parte integrante dell’esperienza. Oltre alle strutture luminose circolari che simboleggiano evoluzione e armonia».
Ma il cuore dello show è la cabina di regia audio. Qui c’è il sound engineer Marco Monforte, che da tempo collabora con Creminini alla parte audio. Insieme a Marc Carolan, storico fonico dei Muse e non solo, ha il compito di far sentire ogni parola, ogni respiro, ogni sfumatura a tutti e in qualsiasi anello dello stadio. «È stato usato il software Soundvision, di nuova generazione, per calcolare ogni punto critico di ascolto e correggere in tempo reale le emissioni inutili. In particolare, siamo intervenuti sulla tribuna frontale del primo anello, punto notoriamente critico. Per colmare la mancanza sono stati installati cluster supplementari, in grado di portare una pressione sonora omogenea nei punti morti».
Vado a sedermi al secondo anello per seguire questo formicaio umano che sta ultimando i preparativi e mi torna alla mente ciò che mi ha raccontato Cremonini: «Tutto dev’essere ben organizzato, ma senza rinunciare a una parte di spontaneità e improvvisazione. Io ammiro nel calcio gli allenatori alla Carlo Ancelotti, che dicono: per vincere bisogna avere una organizzazione difensiva importante, ma non puoi rendere troppo tattico l’attacco. Il campione deve avere la libertà di segnare in rovesciata in qualsiasi momento. E io sono molto in linea con questo approccio». L’avevo provocato: e il numero 10 è lui? «Questo palco per me è la grande difesa, organizzata nel miglior modo possibile, mentre io devo essere il fantasista e tirare fuori il colpo che non ti aspetti per arrivare alla vittoria».
Non solo, perché subito dopo mi aveva spiegato, con una sincerità disarmante, perché è l’artista ad avere le maggiori responsabilità: «Gli impresari fanno girare un sacco di soldi, di questi l’artista ne vede solo una parte e il resto non si sa dove finiscono. Un modus operandi iniziato negli anni ’80, quando eravamo il Paese di Bengodi a livello burocratico, un mondo senza leggi. Il nostro settore genera un indotto gigantesco, ma da parte dello Stato non c’è considerazione a livello industriale. Lo abbiamo visto durante il Covid. Tra il Far West precedente e la trasformazione attuale è passato poco tempo. Per questo avere Marc Carolan all’audio permette di aumentare interesse che porta ulteriori professionalità. La qualità fa ancora la differenza. Per le agenzie è ovviamente un peso, perché togli guadagni per rafforzare un aspetto che loro sottovalutano. Quindi, se c’è una disistima dell’agenzia verso il pubblico, è l’artista che deve ricordare che la qualità del sonoro fa la differenza. Nessuna agenzia ti dirà: spendi metà del tuo budget per migliorare l’audio. Ma anche se sei un artista, devi sapere importi e investire. Io da più di 12 anni investo nei live di tasca mia rinunciando a lauti guadagni. Non è un peso, ma uno stimolo che cerco e una visione personale».
Aprono la vip room e mi fiondo in questa oasi di pace con luci soffuse, temperatura media di 16 gradi e addetti al catering che ti propongono qualsiasi cosa da mangiare e da bere. Questo è il vero metaverso, dove puoi ritrovarti a parlare di musica con la giovane e promettente cantautrice Emma Nolde e subito dopo a disquisire con Beppe Severgnini di quando portò Miuccia Prada ospite a un live di Bruce Springsteen. Ma Cesare è arrivato? «È qui a fianco che fa i massaggi con il fisioterapista del Bologna calcio, Luca Ghelli».
Mentre lo attendiamo, ne approfitto per riascoltare la registrazione del nostro dialogo, e mi colpisce un passaggio: «Io ho vissuto un periodo nel quale il giornale per cui tu scrivi, Rolling Stone, determinava una discussione sulla musica, che purtroppo oggi non esiste più. E persino adesso, mentre ti rispondo, che tu scriva per questa testata per me significa qualcosa e porto un grande rispetto. Anche se c’è stato un periodo di quegli anni d’oro in cui spingeva la musica alternativa».
Ma che cos’è la musica alternativa oggi? «Se guardo a chi era alternativo allora e adesso ha visibilità perché in tv, penso che io per 15 anni non sono andato in televisione, se non come ospite a Sanremo nel 2022. Che cos’è alternativo oggi? È indefinibile. Un tempo, invece, dovevamo fare i conti con il significato di questa parola. Ora alternativo non ha più senso. Io per fortuna non sono ancora nel revival (non a caso sette canzoni di Alaska Baby sono in scaletta, nda) perché mi metto in gioco. Però mi colpisce, nonostante io non vada in tv, la mia popolarità continua a crescere. Com’è possibile? È la dimostrazione che la musica, una delle più grandi forme di comunicazione mai concepite, rimane l’essenza migliore per far circolare la nostra personalità».
«Quando mi chiedono un consiglio, la mia risposta è semplice: sparisci e fai un grande disco». E se dovessero sparire e non tornare con un grande disco? «Se sparisci sicuramente fai un grande disco, perché se non sparisci non lo fai di certo. La gente continua a dire: come mai la musica pop è ripetitiva? La mia risposta è: come può una canzone essere buona se un artista deve farne una ogni due mesi per due anni di fila?». Oggi infatti hanno assunto più importanza gli autori, con i quali anche lui ultimamente ha collaborato. «Si fanno tante polemiche sugli autori, ma ci sono sempre stati, solo che ora sono più evidenti perché sono diventati personaggi. Fanno un lavoro molto importante per gli artisti. Per me non sono un male a prescindere. Il male, semmai, è che la discografia pretenda dagli artisti canzoni in serie senza pensare che nessun artista può scrivere 40 capolavori in due anni. Ma in due anni puoi scrivere un grande album, questo è sicuro».

Foto: Greg Williams, per gentile concessione di Cesare Cremonini
Mancano pochi minuti all’inizio del concerto. Cesare si avvia nel retropalco, dove la manager gli dà delle caramelle alla mela («Gliele ha consigliate Nicoletta Mantovani, le usava anche Luciano Pavarotti») e poi raduna la band per il rito pre concerto, tutti abbracciati, con Cremonini che si rivolge a ognuno di loro per poi esplodere tutti insieme nell’urlo liberatorio: «Perché noi siamo quelli di Alaska Baby!». Dall’altra parte più di 50 mila persone li attendono in un moderno Colosseo e loro non li deluderanno, per due ore e mezza, accompagnadole in un viaggio che passa dal ritrovare se stessi alla scoperta di Un giorno migliore.
Cremonini le trascorre tutte in uno stato di semi-trance: canta, suona, balla, recita, improvvisa, si perde e si ritrova con il pubblico che non lo lascia un attimo. Poi i due momenti chiave, con Elisa in Aurore boreali e Luca Carboni in San Luca, che mi rimandano a ciò che mi ha detto: «Lei è un’artista da quando ci siamo incontrati. Io ero il frontman di una band di grandissimo successo a 19 anni, ma senza il peso di produrre arte. Volevamo vivere un’esperienza rock and roll e non avevamo al nostro fianco una Caterina Caselli, come è successo a Elisa, che l’ha trattata come una grande artista. È cresciuta fin da bambina con quella mentalità, mentre io ci sono arrivato in seguito, ero in un gruppo che cavalcava la leggerezza in cerca del proprio mood e di nuovi sound. Oggi, però, siamo due persone che viaggiano sulle stesse onde di forza creativa. E abbiamo vissuto un’esplosione di connessione artistica». Sul palco omaggia Luca Carboni definendolo una leggenda della musica. «Non riesco a fare qualcosa che sia solo per la mia musica, lo faccio per la musica intesa in senso più ampio. È un principio. Collaborare con Luca, per esempio, è stato un atto spontaneo, di vera continuità, che non ha assolutamente nulla di commerciale. È un legame con una domanda che continua ad assillarmi: che valore ha quello che faccio per la musica?».
Torno dietro al palco per assistere allo show da una posizione inedita. Non c’è caos, anzi, pochissime persone vanno avanti e indietro e tutto scorre senza tensioni mentre le regie verificano l’intero spettacolo da schermi e pc. Prima dell’ingresso per La ragazza del futuro, mi intrattengo con Erika Rombaldoni, coreografa e ballerina talmente incredibile che qualcuno, mi spiega ridendo, vedendola sui ledwall l’ha scambiata per il prodotto di un’intelligenza artificiale.

Foto: Greg Williams, per gentile concessione di Cesare Cremonini
Il concerto finisce, tutti escono ordinatamente. Cesare è l’ultimo con una salvietta al collo, stremato, si aggrappa sulle spalle di Ginevra. D’altronde, pare che dopo ogni live perda circa quattro chili di liquidi. Un giro di saluti veloci, poi riparte subito verso l’hotel per ricaricarsi. E mentre se ne va, seduto su uno dei seggiolini della curva di San Siro, ripenso a quel che mi ha detto su come nascono le sue canzoni: «Nessuno vuole essere Robin, Ragazze facili, Marmellata #25, 50 Special, Le sei e ventisei e La nuova stella di Broadway sono tutti brani che ho scritto e prodotto da solo. Sono miei figli e penso che siano le migliori canzoni che ho scritto perché captano sensibilità non solo personali, ma anche di tante altre persone. Ci sono invece altre canzoni come La ragazza del futuro, Logico e Ora che non ho più te che sono sempre di successo, ma che esprimevano una necessità di dialogo con gli altri per arrivare a qualcosa di più in profondo. Non dimentichiamo le collaborazioni Gaber-Luporini, Mogol-Battisti, Vasco-Curreri, Dalla-Roversi, tutti artisti che hanno instaurato un dialogo con qualcuno. Anche per me è stato utile, in alcuni casi. Avere l’umiltà di riconoscere che ti può servire un dialogo, perché da solo non riesci a sobbarcarti quel ragionamento, è il massimo che si possa desiderare. Se togliessi questa parte di dialogo, avrei tante buone canzoni, però non mi sentirei completo. Bisogna saper leggere cosa significa lavorare in squadra. Purtroppo oggi la retorica insegna al pubblico una non-verità: che un co-autore serve a chi non sa scrivere canzoni. Non è sempre così. Ci sono interpreti che lavorano sull’immagine tre quarti della loro vita e hanno bisogno di autori che gli costruiscano tutto, ma quello è un altro campionato. Li rispetto, ma io mi sento di fare altro».
Alla fine Cremonini ha convinto anche me, come tanti altri, di essere in missione per conto della musica. Per mantenere viva un’arte capace di trasformare una canzone in un messaggio universale. E per riuscirci, a differenza di tanti altri, Cesare Cremonini non dimentica di restare umano, affinché ogni nota diventi un atto di verità.

Foto: Greg Williams, per gentile concessione di Cesare Cremonini
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Photographer: Greg Williams
Producer: Maria Rosaria Cautilli
Art Director: Leftloft
Video Production: Greg Williams
Video adattamenti: Thru Collected