Insomma, alla fine è tornato anche Coez. E visto che il tempo è ciclico, dopo un album acclamato a quattro mani con Frah Quintale come Lovebars, a una certa Silvano ha sentito la necessità di tornare a parlare un pochino di sé e di quello che pensa un gigante del rap e del pop italiano, che però è anche un uomo di 41 anni, per quanto affetto da una meravigliosa sindrome di Peter Pan.
Pertanto, è lecito che un disco come il nuovo 1998 constati che sì, il tempo è ciclico, ma è anche fugace. E pure tanto. Cosa sia successo di preciso nel ’98 per meritarsi il titolo del suo settimo album da solista, manco Silvano lo sa. È piuttosto una questione di vibe, di contestualizzare la vita nel 1998 e paragonarla al mezzo incubo tardo capitalista di oggi, alienato da schermi e spettri di futuri nefasti. Quindi è abbastanza comprensibile, nell’anno della reunion degli Oasis, che Coez abbia firmato la sua opera più strumentalmente suonata e anche britpop finora.
A coronare questa sbandata inglese, il rapper di Nocera ma cresciuto a Roma ha deciso di lanciare l’album proprio nella capitale del Regno Unito: tre date in altrettanti club storici di Camden, per presentare il nuovo disco e bere ettolitri di birra like it’s 1998.
Ma come mai a Londra?
Beh, innanzitutto era chiaramente una scusa per bere dell’ottima birra mentre suoniamo.
Come la preferisci: Pils, Guinness?
Allora, io vado sulla Pils perché ne posso bere un botto. Poi la Guinness me la bevo a Dublino. A ogni posto la sua specialità. Scherzi a parte, abbiamo fatto un album che ha delle sonorità un po’ anni ‘90, in alcuni casi un po’ brit, comunque tutta roba da suonare in band. Tutta roba da suonare senza sequenze, quindi avevamo pensato appunto di provare i pezzi di questo disco in alcuni club storici di Londra. O comunque in generale in posti piccoli. Abbiamo pensato che forse farlo in Italia non avrebbe avuto lo stesso sapore. Ecco.
In quali club storici avete suonato?
Sono tutti e tre club di Camden. Abbiamo suonato al Dingwalls, al Jazz Cafe e il Dublin Castle che è quello più piccolino, fai conto tipo 150 persone. Ma forse è quello proprio con l’attitudine più giusta, l’ho capito quando siamo scesi dal palco. Abbiamo parlato col pubblico, abbiamo bevuto con tutti.
Pubblico principalmente italiano?
Allora, quasi tutti italiani, eh. Nella prima data, addirittura italiani che non vivono a Londra ma sono venuti dall’Italia. insomma, Erano quelli un po’ più ultras che hanno fatto fuori i biglietti della data in, boh, 23 ore. Nelle altre due invece magari c’era la tipa inglese col ragazzo italiano o viceversa. Però ecco, quando artisti come noi fanno queste cose all’estero, lo fanno principalmente davanti a connazionali espatriati. Non raccontiamoci menzogne.
Londra non è stata una scusa per viaggiare nello spazio ma anche nel tempo, quindi. È evidente che sia un tema centrale nel disco.
Esatto. Per noi è stato bellissimo tornare a suonare in posti da 500 persone, rivivere quell’attitudine sulla propria pelle. Se calcoli che poi in Italia una cosa del genere sarebbe stata presa anche male per la gente che magari poteva rimanere fuori, capito? E invece così, secondo me, alla fine, mi sembra che la cosa abbia funzionato. Ha girato bene, non ci sono stati stati scontenti. I numeri erano giusti, i prezzi e biglietti erano giusti, quindi mi è sembrata proprio fra le top tre delle operazioni marketing che ho fatto nella mia vita.
È stato un po’ come tornare ai Broken Speakers.
Esatto. Tra l’altro c’è pure qualche pezzo nel disco che comunque ritorna un po’ con quell’attitudine là. E devo dire che in un locale così il pezzo che pesta di più arriva in una maniera diversa rispetto a un palazzetto dove invece arriva più il singalong, il piano e voce. Cioè per assurdo diventa più da live un pezzo lento in un palazzetto. E invece in quei posti piccoli il pezzo chiaramente che un po’ mena, un po’ veloce, col tempo più veloce lo senti di più. Che poi sono quelli dedicati al ‘98 praticamente.
Eh, perché nell’album c’è sia l’estate che l’inverno ‘98. Ma di preciso cosa è successo nel ‘98?
Eh, questo ancora non l’ho capito, devo dire. Perché io prima faccio i dischi e poi prendono un senso dopo. In realtà è un momento in cui, prima del 2001 e anche della diffusione capillare di Internet, dove ancora c’era come una speranza che le cose potessero continuare a essere un pochino più solari. C’era più speranza. Poi te lo dico da figlio di Internet, perché senza non sarei nato, cioè proprio a livello artistico, però almeno fino alla fine degli anni ‘90 c’era ancora un filo di speranza nel futuro. Ti ricordi poi tutto il terrore per il Millennium Bug?
Certo, che si resettavano tutti i computer e allora partivano le testate nucleari e cazzi e mazzi e si finiva il mondo.
Sì, sono stati gli ultimi anni veramente senza questa dipendenza da schermo del telefonino. C’è un po’ di nostalgia di quegli anni. Qualcosa con il nuovo millennio è successo. Qui la nostalgia un po’ domina. Il disco tant’è che finisce con Il Tempo Vola. Sì, comunque il disco sì, è un po’ un po’ nostalgico. Poi non mi disco penso che siano più o meno delle, insomma, delle emozioni. Forse qua la nostalgia in qualche modo domina.
E quindi bisogna impiegarlo al meglio, dici?
Esatto. Quindi effettivamente a quest’età cominci pure a pensare non c’hai tutto ‘sto tempo, come nel ‘98.
Nel primo pezzo parli anche di morte.
Sì, è un disco che parla un pochino di perdita. Però in generale comunque la perdita è vero che è un sentimento negativo, però alla fine quando ti manca qualcosa può esserci un risvolto positivo. Magari se hai troppa zavorra perdere roba magari è pure una buona idea per non affogare, no?
Se non contiamo l’album con Frah, non usciva un disco da un bel po’: l’ultimo era Volare del 2021. Da allora è cambiata un po’ la musica in Italia. Quale pensi che sia il tuo posto attuale nel panorama italiano?
Io di base ho sempre fatto le mie cose. Nel senso: i miei dischi in generale da Non erano fiori fino a questo qui, li vedo tutti quanti strutturati in una certa maniera. Tutti abbastanza equilibrati con comunque dei pezzi che sono piaciuti di più, pezzi che sono piaciuti meno. Poi ci sono dei momenti, ad esempio, come è stato quello dell’exploit dell’indie dove, sì, sono stato lanciato per aria.
Parli di l’epoca di Faccio un casino, no?
Sì, quella roba ha intercettato completamente secondo me il gusto degli young di quel periodo.
Di gente che nel ‘98 non era anche nata probabilmente.
Questo disco qua si sforza di parlare comunque a quelli un po’ più grandi, infatti. Cosa che magari Love Bars o Volare, no, perché avevano un tiro molto fresco, molto estetico. Con questo non voglio dire che sia un disco impegnato, però c’è tanta emotività dentro quest’album che magari invece sul Love Bars, anche essendo un joint album, era un pochino più difficile, no? Scendere così tanto nell’intimo, se sei in due, penso che è difficile. Invece quando scrivi le canzoni da solo puoi toccare dei picchi di profondità diversi. Devo dire che con Frah Quintale siamo stati svegli a non provarci nemmeno. Volevamo semplicemente un progetto esteticamente bello, musica fresca. Chiaramente, poi, è finito quel percorso lì con lui ed è stata naturale per me la voglia di tornare alle mie cose.
Ok, quindi comunque alla fine è nostalgico anche da quel punto di vista, della formazione sul palco. È tanto suonato.
Sì, oltretutto non avevamo neanche il click [il metronomo nelle cuffie auricolari, ndr] nelle date a Londra. È stato davvero come suonare negli anni ‘90.
Non fosse che c’erano sicuramente mille cellulari alzati a fare video.
Eh ma lì non ci puoi fare un cazzo. Devo dire che la prima serata a Londra sono sceso dopo il live per fare le foto, per parlare col pubblico, per berci una birra dopo e parlare del concerto. Alla fine me ne sono dovuto andare perché c’erano troppi telefoni. Il tizio della security ha visto che c’era un po’ di calca, si spintonavano per fare una foto e quindi sono stato allontanato dalla sicurezza. Ti dico, se non ci fossero stati i telefoni io magari sarei rimasto là pure due ore a parlare con loro. E a bere birre, ovviamente.