Niccolò Fabi: «Scrivere canzoni alla mia età è come cercare di far entrare il mare in un bicchiere» | Rolling Stone Italia
Il cantautor gentile

Niccolò Fabi: «Scrivere canzoni alla mia età è come cercare di far entrare il mare in un bicchiere»

Quando «le esperienze che fai non bastano più a trasferire vitalità alla musica, devi cambiare prospettiva». Lui lo ha fatto andando a registrare ‘Libertà negli occhi’ in uno chalet nei boschi. L’intervista su un album che è «un dialogo tra il mio passato e il mio presente»

Niccolò Fabi: «Scrivere canzoni alla mia età è come cercare di far entrare il mare in un bicchiere»

Niccolò Fabi

Foto: Arash Radpour

Uno chalet tra i boschi, una manciata di strumenti e alcuni compagni di viaggio: niente social, niente distrazioni. Solo il confronto tra il tempo passato e il tempo presente che «non è nostalgia, ma consapevolezza di ciò che abbiamo perso». È nato così Libertà negli occhi, il nuovo disco di Niccolò Fabi in uscita il 13 maggio sulle piattaforme streaming e il 16 in formato fisico (sarà presentato con un live gratuito il 14 giugno in Val di Sole, dove ha preso forma). Un lavoro di nove tracce, insieme rito collettivo e consapevolezza personale, decimo album di inediti di un artista che a 57 anni (proprio il 16 maggio) continua a cercare le proprie verità in fuga dalla realtà: «Scrivere canzoni alla mia età è come cercare di fare entrare il mare in un bicchiere». Ma continua a farlo, consapevole che «l’amore torna sempre al cuore gentile».

In questa intervista ci racconta tutto, tra cui i rapporti di forza cambiati, non in meglio, nel mercato discografico: «Oggi la maggior parte del potere è nelle mani di chi gestisce la comunicazione, che spesso ci impone anche come parlare». L’importanza dei rifiuti nella sua carriera, dai talent ai feat per aumentare gli stream: «I no definiscono la mia vita molto più dei sì». L’Auto-Tune che non lo preoccupa se dichiarato, ma che «rischia di disabituare l’orecchio a percepire le increspature e le sfumature». Ci ha parlato di incomunicabilità tra le generazioni e di spiritualità, ma senza dogmi. E di canzoni dove, come agli esordi, mette in musica i propri stati d’animo e che sono chiavi di lettura più che insegnamenti. «Te le porgo, poi facci quello che vuoi».

Al primo ascolto del disco ho percepito una gran voglia di suonare insieme ad altri, oltre che un ottimo affiatamento con i musicisti. Avevi questo desiderio?
La voglia c’è sempre, anche se un conto sono i concerti, un altro è la registrazione di un disco. In passato, per il carattere intimo della mia scrittura, forse non sono riuscito a farlo emergere di più.

Qui, invece, sembra che il punto di partenza sia un altro. Più collettivo.
In altri lavori partiva tutto da cose che registravo a casa, come Una somma di piccole cose che era un disco creato in autonomia. Questa volta volevo provare a stimolare me e le persone con le quali avrei suonato, e fare un’esperienza nuova. Non tanto suonare insieme, ma vivere in un luogo isolato dal mondo in grado di donarci una complicità che soltanto i viaggi fatti assieme possono dare.

Forse non a caso sono presenti lunghe parti strumentali. Sembra essere una scelta più emotiva che estetica, o sbaglio?
Le parti strumentali non sono solo l’espressione della passione del suonare. C’è anche quello, ma hanno soprattutto un valore di scrittura, di senso della canzone. A me piace la musica strumentale, ti dà una grande libertà immaginifica. Ti trasporta un po’ dove vuoi tu ascoltatore. Invece la voce narrante ti costringe a seguirla, monopolizza l’attenzione. Le parole raccontano la storia e quando il cantante smette di narrare, sei tu che ci metti la tua, di voce, e così facendo hai la possibilità di percepire quanto ci sei tu dentro quella storia. Ricordo una intervista in cui Joni Mitchell disse: «Se tu ascolti me, nelle mie canzoni, ti perdi una grandissima occasione. Se ascolti te, invece, ho raggiunto il mio scopo».

Niccolò Fabi - Acqua che scorre (Official Video)

Il disco è stato realizzato interamente in uno chalet tra i boschi lontano dal caos. Ultimamente molti artisti fanno scelte simili. È una reazione a una società iperconnessa e fin troppo piena di sollecitazioni?
Ci sono diverse ragioni. La prima è anagrafica. Credo che, più o meno, tutti quelli che lo fanno non siano di solito dei ragazzi. Perché il giovane non ha bisogno di niente. Gli dai un foglio, una penna e una chitarra e ti scrive una canzone, ovunque si trovi. Chi scrive da tempo, invece, a un certo punto si rende conto che le situazioni che lo circondano e quello che vive, purtroppo, non sono più sufficienti per trasferire vitalità in ciò che scrive. Per cui deve mettersi dei bastoni tra le ruote, cambiare prospettiva. Queste delocalizzazioni sono fondamentali per chi scrive da anni per raggiungere una visione diversa.

Nella presentazione del disco hai sottolineato che «scrivere canzoni a 56 anni è un po’ cercare di far entrare il mare in un bicchiere».
Perché la vita, a un quasi sessantenne, ha già fornito una serie molto ampia di esperienze e, soprattutto, di relativizzazioni. Quando si è giovani si è più assolutisti. È più facile, da giovane, far entrare in una canzone una sensazione primaria. È difficile farlo con una più sfaccettata, perché una canzone non ti dà il tempo per esprimerla. Ti devi concentrare su una sensazione sola. E quando ne hai scritte tante fai fatica a testimoniare la grandezza di quello che hai vissuto in un solo brano. In fondo, la canzone è una forma d’arte giovanile.

Hai anche aggiunto: «Si ha bisogno di una certa tracotanza e incoscienza per provarci». E credo di aver compreso meglio questo pensiero dopo l’ascolto di Alba, il primo brano, che è una sorta di canzone ridotta ai minimi termini, anche se ricchissima dal punto di vista musicale, ma dove l’unica parte cantata è sintetizzata in questo pensiero: “Io sto nella pausa che c’è tra capire e cambiare”.
Incoscienza e libertà. Quella canzone non sarebbe nata se avessi avuto 25 anni. Infatti è la mia preferita, un manifesto. Mi ci trovo a mio agio perché è quello che vorrei sempre esprimere: uno stato d’animo. E forse anche una chiave di lettura dove, però, non vado oltre. Te la porgo e poi facci quello che vuoi. Ha poi una connotazione da piccolo mantra, senza voler entrare in competizione con le forme alte di meditazione, con l’utilizzo dell’armonium che è appunto uno degli strumenti più utilizzati per recitare i mantra. È la versione migliore di quello che vorrei fosse una mia canzone. Non so se sarei in grado di replicarla, forse sarebbe prevedibile. Ma non escludo che un giorno possa accadere.

Tra i tuoi compagni di viaggio ci sono musicisti con i quali collabori da anni, Roberto Angelini, Alberto Bianco, Filippo Cornaglia, e altri che rappresentano la nuova generazione dei cantautori come Cesare Augusto Giorgini ed Emma Nolde. In particolare mi soffermerei su quest’ultima, che sembra in ascesa.
Ci conosciamo da qualche anno, abbiamo scritto insieme una canzone per il suo disco (Punto di vista, ndr), ma per me, in questo progetto, rappresenta uno sguardo rispetto a ciò che sarei potuto essere io alla sua età. Lei è più preparata di quanto lo ero io a 25 anni. E mi ha restituito una continuità con la mia gioventù che mi emoziona, anche se lei riesce in tante cose meglio di quanto riuscissi io a quell’età. Ha una visione come musicista molto interessante, anche da un punto di vista della preparazione in studio. Infatti non è stata coinvolta come cantante, ma come musicista, produttrice e compagna di viaggio per plasmare questo disco in base anche alla sua sensibilità. Poi questo album, nei testi, ha un grande rapporto con il me adolescente. È un dialogo perenne tra il mio passato e il mio presente. E avere una persona in studio che impersonificava quel me ventenne che avrebbe desiderato suonare con altri per dieci giorni in uno chalet di montagna è stato fondamentale.

Sei arrivato al decimo disco di inediti, ma il Niccolò Fabi ventenne se lo sarebbe mai immaginato, dopo 30 anni, di arrivare a realizzare tutto questo?
No, sinceramente. Non per scaramanzia o pessimismo. Ma perché a 22-23 anni non ero ancora a fuoco. Non avevo capito come mettere in luce le mie caratteristiche artistiche più forti da un punto di vista emotivo. Ero consapevole di essere già molto comunicativo. Di avere una capacità persuasiva nei confronti degli altri e che avrei dovuto almeno provare a metterla in mostra. Però tecnicamente non mi sentivo all’altezza di tanti altri che erano più preparati. Ecco, forse a loro mancava qualcosa di prettamente umano che io mi riconoscevo. Anche se non era minimamente sufficiente per prevedere quello che mi sarebbe successo.

Invece Libertà negli occhi uscirà proprio il giorno del tuo 57esimo compleanno. Ma come la vive, questa discografia, uno che ha iniziato in un altro millennio?
Se devo pensare in modo prettamente egoistico, adesso che siamo all’interno di una casa discografica, la BMG, mi sento molto più a mio agio rispetto a 30 anni fa. C’è un rapporto di conoscenza e rispetto, e ha supportato la residenza artistica.

E a livello generale?
È cambiato tutto e non in meglio. Gli investimenti che si potevano fare in passato sulla musica nuova non sono paragonabili. Io stesso cominciai firmando un contratto per cinque dischi nel 1995. Significava una previsione potenziale di investimento che un’industria faceva nei tuoi confronti che ti dava la possibilità di spalmare il tuo impegno nel tempo, senza essere soggiogato dal singolo che non funziona, da un talent al quale non partecipi o dal non sfondare su TikTok. Forse perché non c’erano i social. Sono anche andato a Sanremo, ma dopo aver costruito un percorso insieme alla casa discografica. La quantità di denaro che aveva la discografia in passato e il potere nei confronti dei media era impressionante.

Sono cambiate completamente le regole del gioco.
Si sono ribaltati i rapporti di potere. Negli anni ’70 si producevano dischi sperando di venderli e la comunicazione entrava successivamente. Adesso chi produce un disco e chi lo ascolta sono quasi sempre sottomessi a regole e standard comunicativi. Questo ha tolto molta libertà a chi investe sugli artisti. Oggi la maggior parte del potere è nelle mani di chi gestisce la comunicazione, che spesso ci impone anche come parlare.

Ciò che non cambia è lo scontro generazionale. In Custodi del fuoco canti: “Ma noi custodi del fuoco /salutiamo il presente ormai fuori dal gioco / oscilliamo da sempre tra il sentirci essenziali e il non essere attuali / un po’ modernisti un po’ nostalgici tristi / e in arrivo un altro tempo o forse è già arrivato / quando il vecchio si ritira davanti al suo rinascimento ed il nuovo un po’ sfrontato / si offre al suo giudizio la dialettica immortale / tra il maestro e il suo novizio”. Sembri consapevole del ciclico passaggio di testimone e lo affronti senza contrasti.
È un’altra sfumatura del rapporto tra la gioventù e la maturità. I confronti intergenerazionali sono sempre estremamente interessanti, purché ci sia un rispetto reciproco. Invece, attualmente, la comunicazione da parte dei più giovani va tutta verso la delegittimazione della vecchiaia, come se non avesse più un valore. Non c’è più quel rispetto tribale dove il vecchio del villaggio era considerato un saggio. Ora è descritto come un rincoglionito. Dall’altra parte c’è il rischio opposto: l’anziano che guarda ai giovani in modo paternalistico giudicandoli, ma non riuscendo quasi mai a capirli davvero.

Lo scontro generazionale di oggi è sulla trap.
Con quelli che se la prendono con il linguaggio e dicono: «Non ci sono più i De Gregori e i De André, Tony Effe non c’entra niente con la musica». E riconoscono una trasformazione del linguaggio soltanto come un impoverimento. Per me non c’è niente di più triste.

È capitato anche a quelli tua generazione di essere criticati mettendovi a confronto con il passato?
Ma certo! È inevitabile e umano che quella dialettica avvenga. Ed è molto complicata da gestire con equilibrio. Gli estremi sono dietro l’angolo. Dai vecchi ridicoli che vogliono sembrare giovani, dicendo che la trap è tutta bella e magari non ci hanno capito nulla, ma lo fanno per mostrarsi moderni, ad altri che compiono paragoni assurdi: «Però i Pink Floyd erano un’altra cosa». Grazie, ma non servite voi per farci sapere che sono diversi.

In questo scontro tra fazioni tu da che parte stai?
Difficile prendere una sola parte. Certo, ci sono pulsioni che ti fanno sentire fuori contesto, come adulto, nei confronti della gioventù. Da un lato la rimpiangi, siamo tutti turbati, noi vecchi, perché rimpiangiamo la nostra gioventù. Ci scatta una sana invidia nei confronti dei più giovani. Allo stesso tempo c’è la consapevolezza di quello che siamo, quindi anche della capacità di poter essere delle guide, che mancano molto ai giovani di questa epoca.

In passato i giovani sembravano cercare almeno qualche riferimento per orientarsi.
Sì, ma anche oggi potrebbe aiutarli a decodificare la massa di informazioni che ricevono. E nei ragazzi senza una guida, con ancora poca dimestichezza con ciò che li circonda, questo mondo è totalmente confondente. Hanno sostituito il concetto di conoscenza con quello di informazione. Non sono sinonimi. L’informazione ti dà una serie di dati, ma per comprendere quali sono utili e quali no e interpretarli sarebbe ancora necessaria una guida.

Foto: Arash Radpour

Quanti no ha detto Niccolò Fabi?
Quanto tempo hai? Ne avrò detti 100 mila. I no definiscono la mia vita molto più dei sì. In alcuni casi lo dico con malcelato orgoglio, in altri con assenza di coraggio. I due aspetti stanno insieme. Ho detto di no dalle convention bancarie agli spot di ogni tipo, fino al talent come giudice o alle collaborazioni con artisti e produttori famosi che avrebbero potuto aumentare il numero dei miei stream su Spotify. Credo di avere detto no un po’ a tutto.

Non ti sei mai pentito?
Era talmente forte in me il disagio, quando ho vissuto cose che erano lontane dalla mia natura, che non ci può essere un pentimento. È il mio corpo che mi ha spinto a quelle decisioni. Se ci fosse stata una motivazione ideologica, almeno mi sarei potuto pentire di quanto fossi integralista in passato. Ma non mi sono pentito perché se faccio qualcosa che non sento di fare, sto proprio male. È un fattore biologico più che etico.

Tornando al disco, in Libertà negli occhi vai talmente indietro nel dialogo con il tuo passato che arrivi all’infanzia. Neanche lì c’è rimpianto?
Non è rimpianto. Questo disco non esprime nostalgia per il passato, ma un rendersi conto che certe cose le abbiamo perse. Io adesso adoro fare le passeggiate in montagna, mentre mio figlio dodicenne non le sopporta. Per lui è un tempo perso, per me è meraviglioso.

In Chi mi conosce meglio di te, con Roberto Angelini, sembri cantare un concetto sintetizzato in una battuta ormai abusata e attribuita a Conrad: «Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?».
Assolutamente sì. È un concetto che, tante volte, è tornato nella nostra vita. O citando quella frase, o dicendola in maniera diversa, ma anche per giustificare la nostra pigrizia. O perché, inconsapevolmente, non ci rendiamo conto che questo è il grande privilegio di chi scrive. Per chi fa una vita come la nostra è un grandissimo privilegio l’idea che ogni singolo evento, compresi la noia e l’apatia, il dolore o un corso di sub in un viaggio in Myanmar possano essere una scintilla per una considerazione artistica. È una canzone dedicata al nostro rapporto con la canzone stessa. Un interlocutore intimo, che ci è sempre stato accanto, come la scrittura.

In Nessuna battaglia canti: “Quello che cerco non è una guarigione / non si può guarire da sé stessi / non è una malattia / è solo una nuova evoluzione / un’altra forma della nostra sostanza / nessun nemico nessuna battaglia”.
Parlo di guarigione di se stessi, ammesso che si possa considerare malattia una evoluzione della nostra forma, il nostro corpo che ci porta a soffrire o avere paura di morire. Che ci fa rendere conto, a un certo punto, che la biologia si sta rivoltando contro di noi, che il nostro corpo ci considera degli estranei. È qualcosa che avviene dentro di noi. Toppo spesso, a proposito di chi affronta una malattia reale, si dice che sta combattendo una battaglia, che l’ha vinta o persa. Mi sembra una modalità di racconto che non è d’aiuto a chi percorre quel cammino. È un brano dedicato a chi sta facendo quel percorso.

“Ancora no non mi sono arreso / coltivo fiori in grande autonomia / che non è poi così scontato per un signore di una certa età”, racconti in Casa di Gemma. Qualcuno potrebbe scambiarlo per un riferimento a un tuo hobby.
Non coltivo davvero fiori, ma lì c’è un riferimento che forse capirà solo la mia biografa Martina Neri (autrice del libro intervista Solo un uomo contenuto nel cofanetto Diventi Inventi 1997-2017, ndr). Siccome il mio primo disco si intitolava Il giardiniere, si riferisce al fatto che, dopo tanti anni, io continuo a crederci. E c’è anche il rapporto tra un adulto e una giovane, cioè di come si possa interagire in una ipotetica storia d’amore tra chi su una montagna sta in salita e chi in discesa.

Sia in Acqua che scorre che in Al cuore gentile citi Dio, prima come creatore del cielo e della terra e poi affermando che potrà capirti. Ma sei credente?
Mi chiedi una cosa da niente… Non è facile arrivare a una risposta certa. Chiunque si dica credente non fa altro che esprimere una speranza, non una certezza. È un atto di fede, per l’appunto. Non so se potrei definirmi credente, ma so che definirmi non credente non mi piace. Come anche ateo. L’assenza di Dio, secondo me, può fare più danni che la presenza. Non parlo del Dio usato per fini biechi, di propaganda o per metterci gli uni contro gli altri. Diciamo che sono credente perché mi fa più paura il suo contrario. Ho indubbiamente in me una componente spirituale che caratterizza le mie giornate. Ti posso dire che prego ogni giorno, questo sì.

Nonostante la spiritualità, in L’amore capita restituisci una definizione di questo sentimento che è anche un po’ pulp: “L’amore capita e decapita”.
Non nego che l’aspetto grammaticale mi abbia un po’ sedotto, infatti è collegato alla frase successiva: “Perderei la testa adesso fosse in me”, cioè se avessi la possibilità di decidere quando innamorarmi, perdendo il controllo. È una esperienza che caratterizza profondamente la nostra vita, quando si ha la possibilità di viverla.

Niccolò Fabi - Al cuore gentile (Official Video)

Ti va di dichiarare quanto Auto-Tune c’è in questo album?
C’è, non ho problemi ad ammetterlo. Se per Auto-Tune intendiamo la correzione in alcuni brani per salvare certi take che erano particolarmente espressivi, ma magari avevano mantenuto delle sbavature sull’intonazione. In quel modo siamo riusciti a salvarli. Ma immagino tu non me lo chieda per approfondire il lavoro in studio, vero?

Diciamo che, in generale, c’è chi lo usa ormai ben oltre le correzioni in studio. Secondo te è anche in atto un abuso, oppure è una forma espressiva che fa parte di quest’epoca?
Come tutti gli strumenti tecnologici, è facile diventarne dipendenti. Il rischio è che, di fronte a qualsiasi innovazione, l’eccitazione ce la faccia utilizzare in modo sconsiderato. E spesso senza scegliere di farlo. Il problema di quel tipo di correzione non è nell’effetto robotizzato e dichiarato che le persone individuano come Auto-Tune e che caratterizza il suono della trap. Non lo trovo un problema. Il vero problema che rilevo è che, in maniera assolutamente automatica, venga utilizzata la correzione del pitch dell’intonazione dei cantanti in studio o dal vivo, persino a Sanremo, quindi la mia preoccupazione è l’Auto-Tune che non si sente.

Per cui basterebbe dichiararlo?
A me preoccupa l’ansia generalizzata di non avere sbavature, un po’ come sui social per chi utilizza i filtri fotografici. E questo sta togliendo le caratteristiche specifiche di ognuno di noi. Sono filtri che vanno a uniformare le voci di tutti, con una intonazione artificiale, visto che la voce naturale non riesce ad essere così precisa dal punto di vista delle frequenze. E rischia di disabituare l’orecchio nel percepire le increspature e le sfumature. Un ideale di perfezione del genere toglie le caratteristiche dei singoli. Come nella chirurgia estetica, con degli standard di naso, bocca o seno, i corpi tendono ad assomigliarsi, così avviene con le voci e questo mi fa un po’ paura.

Visto che Libertà negli occhi è un disco che dialoga con le tue varie fasi del passato, possiamo concludere che il Niccolò Fabi di oggi non è poi così distante da quello che si laureò in Filologia romanza con una tesi sulla codicologia, la disciplina che studia i libri manoscritti antichi e medievali?
Ma certo, non c’è una grande differenza tra scegliere di andare a registrare un disco in uno chalet di montagna oppure preparare una tesi di laurea nel monastero di Santa Scolastica a Subiaco. Più o meno è rimasta la mia stessa incapacità di dialogare con la realtà, trovando però una via di fuga più sognante. Che sia nella musica o nell’immedesimarsi nello stato d’animo di un amanuense catalano che scriveva i salmi nel 1200. Dici che tutto torna? È vero, ma non sempre è una figata. C’è chi può considerarlo una noia e chi un valore.

Altre notizie su:  Niccolò Fabi
OSZAR »