Magari non lo vedete più in giro come una volta, di sicuro non ha la rilevanza nella cultura pop che aveva quando suonava come un matto nei Police. Ma a un passo dai 73 anni, Stewart Copeland resta un gran musicista e un entusiasta devoto alla causa. Chiedetegli quali sono i cinque concerti che gli hanno cambiato la vita e non citerà come fan tutti solo le esperienze formative e giovanili, ma anche performance che ha visto quand’aveva 50 o 70 anni. Ammette d’essere stato ispirato non solo dai maestri della batteria come Mitch Mitchell, ma anche dal compianto Joey Jordison degli Slipknot. Da chi pensate abbia preso l’idea del doppio pedale?
Ha un bel senso dell’umorismo, una buona memoria, una vasta gamma d’interessi e una tanta voglia di comunicare. Negli ultimi anni è parso interessato a mettere ordine nel passato, a volte a rielaborarlo. E così s’è buttato in vari progetti dedicati ai Police, tra libri, performance e dischi. Di recente però ha pubblicato un Wild Concerto assemblato campionando l’archivio di suoni del naturalista britannico Martyn Stewart e ora sta lavorando a un’opera di cui non può dire nulla. Ha anche scritto un libro che è un po’ antropologia del fandom e un po’ manuale per i malcapitati che fanno il suo lavoro in quest’epoca incerta. Pare particolarmente interessato a capire la funzione della musica, un misto di elevazione quasi spirituale, aggregazione e ovviamente sesso. C’entra una certa Janet McRoberts, ricordatevi il nome.
A fine luglio tornerà in Italia col progetto Police Deranged for Orchestra: il 23 a Villafranca di Verona, il 25 a La Spezia, il 27 a Roma, il 29 a Foggia. È la rilettura del repertorio dei Police con la Ensemble Symphony Orchestra diretta da Attila Simon, e con vari ospiti tra cui Faso e Vittorio Cosma, sorta di combinazione tra la musica del trio e le colonne sonore che ha scritto, una delle tante attività in cui s’è buttato. È una buona occasione per chiedergli quali sono i cinque concerti che ha vissuto da spettatore e che lo hanno sconvolto, più altre cose sulla musica dal vivo, dall’aspetto cerimoniale del rock alla terapia di gruppo (anzi, di band) fatta con Sting e Andy Summers ai tempi della reunion. Ha una risposta a tutto, anche al perché lui s’è comprato una tenuta di 16 ettari con cavalli e campo da polo e noi no.
Partiamo col primo concerto che t’ha cambiato la vita?
La Jimi Hendrix Experience al Saville Theatre di Londra nel 1967. Ero arrivato da poco in Inghilterra dal Libano e non avevo mai visto in vita mia una band di professionisti. Si suonava alla scuola americana di Beirut, ma i primi musicisti professionisti che ho visto sono stati quelli dell’Experience.
Mica male come inizio. Quanti anni avevi?
Suppergiù 15, forse con me c’era mio fratello Miles. Il suono era un disastro, non avevano ancora capito come far sentire bene quel tipo di musica. Ma sai cosa? Non me ne fregava niente, mi ha fatto comunque andare fuori di testa.
Immagino. Com’era Mitch Mitchell?
Non lo si sentiva, la batteria era totalmente sovrastata dal volume della chitarra. Ma ti dirò una cosa che mi attirerà qualche critica e quindi mi scuso in anticipo con chi non è d’accordo: in campo rock, metto Mitchell sopra a John Bonham. Se non è altrettanto famoso è perché è stato messo in ombra da un certo chitarrista che suonava con lui. In qualunque altra band sarebbe stato lui al centro dell’attenzione. È uno dei musicisti a cui mi sono ispirato. A volte penso d’avere inventato certe cose nel mio stile, tipo i crash. Poi risento i suoi dischi e mi dico: ah, ecco da dove l’ho preso.
Hai accennato all’acustica. Quali sono gli altri fattori fondamentali affinché un concerto venga bene, dal tuo punto di vista? Il tuo stato d’animo, il pubblico, la set list?
Nessuna di queste cose. È la vibrazione che la band riesce a creare sul palco, è il rito della performance che eleva il pubblico fin su nel cosmo. Ci sono serate buone e altre meno buone. La cosa strana è che è soggettivo. M’è capitato di scendere dal palco pensando che il concerto era stato un disastro per poi sentirmi dire dal mio tecnico che era stato grandioso. E poi c’è un’altra cosa: se una sera pensi d’aver fatto il concerto della vita, la sera dopo o fai di meglio o ti sembra uno schifo. Sei bravo quanto la tua ultima performance.
Non dev’essere facile vivere con quest’ambizione. Il secondo concerto invece?
Andiamo avanti di dieci anni fino al 1977 quando i Damned hanno suonato al Roxy, che all’epoca era un club nuovissimo a Londra. Il suono era decisamente migliore di quello di Hendrix. Immagina: ero a pochi metri dal gruppo in un club sudatissimo. Per me quel concerto è simbolico di un cambiamento epocale che stava avvenendo: dai capelli lunghi a quelli corti, dal fumare marijuana a sniffare colla, dal peace & love all’anger & power. Ma i capelli soprattutto (ride).
Ti sentivi estraneo a questo cambiamento? Lo osservavi da fuori?
Ero un outsider visto che venivo da un gruppo prog piuttosto famoso, i Curved Air. Ma anche un insider perché per via della mia età mi trovavo a metà strada tra gli hippie e i punk. I primi mi sembrano superati e noiosi, coi secondi e con la loro energia invece riuscivo a identificarmi.
Tornando indietro negli anni, ricordi il motivo per cui hai iniziato a esibirti di fronte a un pubblico?
Il motivo si chiama Janet McRoberts.
Prego?
Janet McRoberts. Lei aveva 15 anni, io 12. Avere il potere di farle muovere i fianchi era una droga per un dodicenne. Qualche anno dopo, avrò avuto forse 15 anni, ho suonato a un concerto di Natale alla Wells Cathedral. Il mio pezzo era Little Drummer Boy, hai presente? Il suono che si rimbalzava tra le pietre e le vetrate e il coro possente m’hanno fatto capire che la musica era qualcosa di più di Janet McRoberts.
Sesso e spiritualità, ci sta. E una via di mezzo, l’amore? Voglio dire, uno dei motivi per cui continui a farlo è perché vuoi essere amato dal pubblico?
Direi piuttosto che voglio accendere il pubblico, lo voglio scuotere, eccitare. In quanto all’amore… mmm… amore non mi sembra la parola giusta, anche perché ci sono musicisti di cui amo la musica, ma che sono grandissimi stronzi.
Ecco, di questi tempi si tende a far coincidere le due cose, a giudicare un musicista e quindi anche la sua musica in base alla condotta morale.
E invece non dovrebbe contare. Si che Frank Zappa era un grandissimo stronzo, ma questo non m’impedisce di amare la sua musica. Vogliamo parlare di Wagner? Il talento musicale non s’abbina necessariamente al rigore morale.
Eh no. Dimmi del terzo concerto…
L’anno è il 2000, il gruppo gli Slipknot a un festival chiamato Tattoo the Earth che si teneva a San Bernardino, California. Ero lì coi miei tre figli adolescenti. Joey Jordison faceva cose con i piedi che io avrei voluto saper fare con le mani. Mi ha ispirato ad aggiungere un secondo pedale alla batteria. I migliori batteristi viventi vengono dal death metal.
Che ci facevi al Tattoo the Earth?
Ero lì per vedere i Sepultura con cui c’era in ballo una collaborazione. Sono stati loro a dirmi: guarda che devi sentire gli Slipknot.
Suonare le stesse canzoni sera dopo sera specie quando fai un tour lungo può essere usurante? Voglio dire, non ti senti come un musicista di Broadway?
Me lo chiedono spesso: suoni Roxanne per la milionesima volta, non ti rompi? La risposta è no. Quand’eravamo giovani e suonavamo di continuo non vedevamo l’ora di salire sul palco e rifare le stesse identiche canzoni per un pubblico nuovo. Sai, l’eccitazione, la performance, l’evento. Non so perché, ma non è mai stato un problema. E non è un problema neanche adesso che quei pezzi hanno quasi 50 anni perché non suono poi tanto spesso. I concerti che farò in Italia sono tre, quattro sulla decina in totale che farò quest’anno. Ma anche se ne facessi di più credo prevarrebbe l’aspetto rituale, cerimoniale dei concerti. Quando riesci ad accendere il pubblico, beh, è una sensazione incredibile. Quello è l’evento. I pezzi che suoni sono solo il mezzo.
Il quarto concerto?
I Rage Against the Machine in Nuova Zelanda nel 2008. Un concertone. Loro, i Foo Fighters, i Tool, i Primus, i musicisti di quelle band e di quella generazione avevano 16 anni quando io ero popolare coi Police e quindi mi trattavano come uno dei Beatles, anche se non lo sono.
Ricordo ancora l’eccitazione con cui Taylor Hawkins mi diceva: «Sono andato a sentire la reunion dei Police, Stewart ha suonato come sempre too fast, too loud, too much e quindi è stato grandioso».
(Ride) I Foo Fighters, Taylor e anche Dave erano veramente fan, hanno insistito per aprire per i noi al Dodger Stadium nel 2007. Tornando ai Rage, Tim, Tom e Brad sono i migliori in assoluto sul palco, sono i Led Zeppelin dei nostri tempi, indipendentemente dal cantante con cui si esibiscono. Ho anche una storiella su di loro.
La voglio sentire.
Dunque, stiamo girando l’Australia coi Police. Facciamo il check-in in un hotel di lusso non ricordo dove, so che era un hotel Versace, per farti capire il lusso. E chi vediamo nella lobby? Ops, Zack, Tim, Brad e Tom, non particolarmente infuriati con la macchina in quel momento (ride). Il giorno dopo andiamo in un centro commerciale. Sai, è una cosa che le band fanno quando sono in tour, si chiama retail therapy, in parole povere shopping. Compri cose di cui non hai bisogno e finisci per chiederti: quando mai potrò indossare questa roba che ho comprato, forse a un funerale hawaiano? Comunque, chi incontriamo lì? I Rage Against the Machine. O forse gli Shopping Against the Machine… fatto sta che anche lì non li ho visti particolarmente infuriati (ride).

Foto press
A proposito di terapia, è vero che durante il tour della reunion dei Police avete fatto band therapy?
Sì e ha funzionato. La consiglio a tutte le band che hanno dei problemi. Spesso non è poi tanto difficile risolvere i conflitti interni, ma per farlo hai bisogno di un arbitro. Abbiamo comunque continuato a gridarci dietro, ma almeno sapevamo che cosa ci stavamo urlando l’un l’altro. Dopo aver fatto terapia, il tour è andato molto meglio. Mi sa che avremmo dovuto farla molti anni prima, quand’eravamo giovani.
Forse all’epoca non c’era una cosa chiamata band therapy…
Qualcuno mi aveva detto che Rolling Stones l’avevano fatta e allora ho pensato: visto che suoniamo negli stessi stadi in cui suonano loro, voglio anch’io la band therapy.
Essendo loro in giro da 60 anni…
Qualcosa di buono deve aver fatto.
Ok, siamo al quinto e ultimo concerto.
Jacob Collier nel 2023 in Italia a Gardone Riviera.
Che gran posto l’Anfiteatro del Vittoriale, sul lago.
Era una meravigliosa sera d’estate. Io ho suonato la sera dopo e ovviamente è venuto giù il diluvio universale, ma è stato comunque uno dei concerti migliori del tour. Non conoscevo Collier, avevamo la serata libera, siamo andati a vedere che faceva. È inventivo, vario, sofisticato, pieno di trucchetti che gli ruberei anche se lui ha 30 anni o quanti ne ha. Tant’è che mi sono chiesto: com’è possibile che non sia una superstar? Perché non suona negli stadi? A un certo punto ha fatto anche Every Little Thing She Does Is Magic con un arrangiamento incredibile.
Ecco, i Police: ricordi il migliore e il peggior concerto fatto con loro?
Uno dei migliori è quando abbiamo fatto lo Shea Stadium, una serata magica. I gruppi in apertura (c’erano Joan Jett e i R.E.M., nda) sono stati incredibili e quando siamo saliti sul palco la gente era già carichissima.
A proposito di stadi, le dimensioni contano?
Sì e no. La gente mi dice: wow, suonare di fronte a una marea di gente ti deve innervosire di brutto. La verità è che più gente c’è e meno nervoso sei. E questo perché i grandi eventi hanno un’energia tutta loro che t’aiuta. È decisamente peggio suonare al matrimonio di un amico che in uno stadio di fronte a 80 mila persone.
E il peggior concerto dei Police?
Fammici pensare… Forse quando nel 1979 o giù di lì i Ramones hanno aperto per noi. Il viaggio era stato difficoltoso, c’erano stati problemi al soundcheck, l’umore era pessimo. Arrivano i Ramones e tirano giù il locale. Di solito quando il support act fa un concertone, l’headliner è incentivato a far di meglio, non puoi farti intimidire. In quel caso non siamo stati alla loro altezza. Loro grandi, noi no.

Con i Police. Foto: John Rodgers/Redferns
Qual è la cosa migliore, dal tuo punto di vista, del progetto Police Deranged for Orchestra?
Il fatto che suonare quei pezzi con l’orchestra m’ha spinto a cambiare stile. Una cosa è l’amplificazione di un gruppo rock, una cosa è l’acustica di un’orchestra. Il risultato sorprendente è che da una parte posso metterci paradossalmente più potenza perché ho a disposizione uno spettro dinamico maggiore e dall’altra parte ho modo di lavorare di più sulle sfumature…Ok, so che qualcuno che sta leggendo dirà: «Cosa? Sfumature e batteria nella stessa frase?». Ma è così.
Hai per caso sentito il nuovo trio di Sting con Chris Mass e Dominic Miller? È una formula che conosci bene. Questlove ha detto che dovrebbero chiamarsi The F.B.I.
Ah ah, non credo succederà… Non li ho ancora visti, ma andrò. Sono un fan di Sting, è un grande performer. Anzi, se dovessi dirti un sesto grande concerto a cui ho assistito sarebbe il suo con Peter Gabriel all’Hollywood Bowl. Due band sul palco nello stesso momento, cantavano l’uno le canzoni degli altri, facevano duetti… e che bello vedere Sting figo al basso mentre cantava Peter.
Negli ultimi tempi ti sei dedicato molto al passato dei Police. Nuovi progetti?
Dopo aver pubblicato il Wild Concerto, sto scrivendo un’opera di cui non posso dirti nulla. Posso invece parlarti del libro che sto scrivendo. Con 70 anni di esperienza nel mondo della musica, le parole scorrono che è un piacere, mi sono divertito un mondo a scriverlo. È un’analisi antropologica del fandom e allo stesso tempo un manuale per giovani musicisti in cui spiego come affrontare varie situazioni, dalle cerimonie tipo i Grammy a cosa fare in camerino per passare il tempo o come scegliere tra un Learjet e un tour bus. Il titolo è The Complete Rockstar: How to Survive on More Fame and Fortune Than You Deserve.
Bel titolo. Pensi d’avere avuto più fama e fortuna di quella che meritavi?
Credo che i musicisti in generale ne abbiano più di quella che meritano. Un dentista o un carpentiere fanno lavori di gran lunga più utili del mio. Un cardiochirurgo ti salva la vita, perché una rockstar ottiene più attenzione?
Che risposta ti sei dato?
Succede perché la musica ha una funzione unica nella società dei sapiens. Ha a che fare con lo stringere legami di tipo sociale, col creare comunità. Ne parlavano in un documentario della BBC, la musica potrebbe essere il motivo per cui i sapiens sono prevalsi sugli uomini di Neanderthal. Erano gruppi più coesi e lo erano perché cantavano e ballavano tutti assieme, tant’è che ci sono strumenti che risalgono a 20 mila anni prima dell’agricoltura. Capisci? Musica prima del cibo. E poi c’entra il sesso. La musica è l’unica forma d’arte che prende possesso del tuo corpo, che ti fa muovere anche se non vuoi. E che tipo di movimenti ispira? Segnali di tipo sessuale. Rembrandt non lo fa, nemmeno Shakespeare lo fa. La musica rock sì. Ti fa muovere il corpo in quel modo lì, ha un extra mojo rispetto alle altre arti.
E qui si torna a Janet McRoberts.
Eh già.