Alle 21:16 di ieri sera, dopo una breve attesa fatta di sigarette nervose e tute acetate indossate come un mantello da supereroe del disagio affettivo contemporaneo, Flavio Bruno Pardini sale sul palco del Circo Massimo e comincia il più importante concerto della sua carriera. Classe ’89, Gazzelle ha raggiunto da tempo il rango di idolo dell’itpop, pur restando sempre uguale a sé stesso, come certi palazzi della sua Roma Prati che, anche se ristrutturati e riempiti di studi legali fino a scoppiare, non riescono a togliersi di dosso l’odore di domenica mattina e caffellatte.
Gazzelle non è un musicista. È una sindrome. Una di quelle condizioni persistenti e apparentemente lievi, ma capaci di influire sull’assetto interiore di chiunque ci entri in contatto. Un po’ come l’allergia primaverile, ma ai sentimenti. Ti prende a piccole dosi e non ti lascia più. Il suo repertorio non ha bisogno di particolari vocalismi, lirismi o tecnicismi: gli basta posarsi esattamente nel punto in cui non stai male da star male, ma nemmeno bene da star bene. La sua poetica non evolve, ricorre. Giacché la sindrome di Gazzelle è cronica, non si cura, ma si gestisce. E così, Destri, Scusa, Vita paranoia, Sbatti, Non sei tu, Quella te sono leggere ricadute o crisi acute dello stesso malessere, documentate in musica con l’accuratezza clinica di chi ha imparato a convivere con la propria sintomatologia e l’ha trasformata in versi.
È un poeta low-fi, uno che non ha bisogno di effetti speciali. Gli bastano tre accordi e due versi come “Che ti ricordi di me, lo so / Ma solo quando non ti calcolo” per far crollare qualsiasi difesa nell’uditorio. C’è chi ha cantato l’amore come epopea, chi come trincea, chi come malattia tropicale. Gazzelle, invece, lo ha cantato come una chat di WhatsApp rimasta senza risposta. Ma attenzione: questa non è superficialità. È raffinato disincanto. È scrivere canzoni, che fischietteremo e balleremo, guardandoci negli occhi e confidandoci qualcosa come: «So che sei ridicolo, ma tutti un po’ lo siamo, soprattuto se cerchiamo di parlare seriamente di amore, di nostalgia, di Grattacieli meteoriti gli angeli. Orsù, facciamoci compagnia mentre la nostra dignità va a rotoli».
Giunto ai due terzi di una scaletta da 30 pezzi – che alternerà singhiozzi trattenuti, duetti con Fulminacci (nell’insolito ruolo di linea comica) e Noyz Narcos (nel consueto mood luciferino), nonché cori da derby tra amore e disamore – Gazzelle saluterà con disarmante genuinità sua madre e suo padre, presenti nel pubblico. Lo farà con quell’impaccio tenero di chi non è mai del tutto a proprio agio nel ruolo di protagonista, ma che si concede una parentesi da figlio in mezzo a un’esibizione colossale da cantautore minimo.
Il pubblico applaude, sorride, si commuove. Perché, in fondo, intuisce che è lì che si annida il cuore della poetica gazzelliana: un ragazzo qualunque che scrive canzoni anche per dire alla madre che sta bene e al padre che ci sta provando, con le parole che ha a disposizione. Poche, spezzate, ma così azzeccate da catturare l’attenzione anche dei più laici tra i fan presenti, facendo breccia persino nei loro timori in materia di code sulla strada del ritorno; code che ora quasi benedicono, forti della prospettiva di rivisitare, nel traffico veicolare, questa nuova, interminabile playlist: dolorosa ma accurata rappresentazione di un’umanità imbottigliata nella vita.
A dire la verità, la produzione di Gazzelle è la musica perfetta da ascoltare in casa da soli, con le tapparelle abbassate e lo sguardo fisso su un punto a caso della carta da parati. E allora uno si chiede: che ci fa tutto questo al Circo Massimo? Che senso ha un campione della ritirata emotiva davanti a un circo romano pieno di persone che cantano all’unisono “Siamo due fiori cresciuti male sul ciglio della tangenziale”, come se fosse il loro inno nazionale e non un messaggio scritto alle 2:43 del mattino e poi cancellato?
La musica di Gazzelle è sì intima, sghemba, antieroica. I suoi testi non sono pensati per essere urlati, ma per essere masticati piano o, al massimo, digeriti in silenzio. Eppure tutto questo regge perfettamente anche in uno spazio smisurato come il Circo Massimo. Regge perché non è la monumentalità del luogo o la potenza degli amplificatori a dare forza alle parole, ma la fragilità condivisa da chi le ascolta.
Funziona perché quel “Quando faccio schifo come te” urlato da migliaia di bocche diverse diventa corale proprio perché è personale. Funziona perché la malinconia, una volta messa in comune, smette di essere patetica e diventa catartica. E allora anche la frase più dimessa – “C’è un gatto col tuo nome, miao, dove va?” – diventa un grido di appartenenza, un’adesione programmatica che non ha bisogno di spiegarsi: basta esserci.

Gazzelle al Circo Massimo. Foto: Roberto Panucci
Gazzelle non ha bisogno di cambiare il suo modo di essere per stare su un palco gigantesco. È il pubblico che si adatta alla sua misura, come un’intera città che per un giorno decide di rimanere “come una scia”. E così succede qualcosa di rarissimo nella musica pop italiana: un cantautore che canta l’inadeguatezza dentro un contesto perfettamente inadeguato, senza snaturarsi.
A un certo punto del concerto Gazzelle ferma tutto e dice: «Rigà, voglio dirvi qualcosa sulla vita. E sulla guerra, che sembra una strage, dall’altra parte del mare». Lo dice con quel tono lì, da amico che non è bravissimo a parlare in pubblico ma ci tiene lo stesso. Non è un discorso articolato, non è un comizio. È un attimo di esitazione condivisa. Ma, in un’Italia in cui si fa sempre più fatica a dire le cose difficili senza urlare, il suo balbettio empatico è già politica: la più gazzelliana che ci sia.
Un altro lato positivo della fruizione del corpus gazzelliano in uno spazio di estrazione imperiale è che ci permette di stanare le principali categorie del suo pubblico di riferimento. I fan di Gazzelle – che da queste colonne chiameremo i Flavi, sia per un omaggio generale alla dinastia, sia per l’evidente discendenza del taglio di capelli del loro beniamino da quello dell’imperatore Domiziano – non costituiscono un pubblico qualsiasi. Sono un esercito disarmato, un culto sincretistico, una comunità fondata sull’insicurezza reciproca. Contiamo, nei vari settori configurati dalla bigliettazione:
1) I Destri Integralisti, che hanno fatto di Destri non solo un tormentone, ma un intero codice relazionale. Passano la serata in fila al bar del pratone e l’esistenza nella continua tensione tra il bisogno di lasciarsi e l’incapacità di farlo uniti da un principio liturgico preciso: «Mi mancherai a tratti». Sono convinti che “Non ci fanno ritornare lì, a quei momenti lì” sia una delle frasi più devastanti mai scritte in italiano moderno. Della poetica gazzelliana incarnano il principio fondante: l’amore non inizia o finisce, va solo in modalità aereo.
2) I Settembrini Cronici vivono perennemente dentro la metafora stagionale di Settembre. Sono persone per cui ogni “buongiorno” ha il retrogusto di un “ci sentiamo”. Amano con cautela, aspettano troppo a rispondere e fanno molte domande senza punti interrogativi. E lo dicono sorridendo, mentre fissano la nuca di un potenziale partner che non si gira. Erano e sono ovunque.
3) I Paranoici Leggeri considerano Vita paranoia i Promessi sposi che hanno effettivamente letto. Controllano le spunte, gli online, l’ultimo accesso e anche il meteo della città in cui vive l’altra persona. Mandano messaggi che cominciano con “So che magari ti disturbo ma…”, poi cancellano tutto e ripiegano su un cuore giallo. Per loro, Gazzelle è il cantautore ufficiale del panico sottaciuto. Se ne riscontra la presenza prevalentemente nell’habitat del pit sottopalco.
4) Gli Specialisti del Non Chiarimento sono i professionisti del “Non è come pensi”, i dottori sottili dei malintesi. Quando ascoltano Non sei tu, annuiscono, fieri di condividere con Gazzelle un’abilità diplomatica da Talleyrand. Sono la colonna portante del suo pubblico. Vivono e cercano, invano, di lasciar vivere, soprattutto, nell’area hospitality.
Ma tra le sottospecie dei Flavi, ieri ne era presente una che merita una menzione speciale e che ha rappresentato il grande valore aggiunto ermeneutico della serata.
5) I Coatti col Cuore, creature mitologiche della Roma odierna, tutti “Daje Magica” di giorno e sensibilissimi dalle 21:30 in poi. Sono assiepati nelle ali più remote del pratone. Li riconosci subito: jeans strappati, tatuaggio con la data di nascita della nonna, cintura GCDS, vocabolario calcistico applicato ai sentimenti («Sta tipa me ha spezzato come er crociato de Zaniolo»). Di giorno sbraitano, di notte cantano La prima canzone d’amore con voce rotta. Hanno abbracciato Gazzelle perché è l’unico che gli permette di cuorificare una story alle 3:17 senza rinunciare a chiamare il proprio cane Totti.
In un momento cruciale dello show Gazzelle si ferma, alza lo sguardo e dichiara, dopo averne chiesto e ottenuto uno: «Che Dio benedica il gin tonic». In quel momento, una piccola crepa si apre tra lui e il suo popolo. I Flavi sono gente da Peroni da tre quarti. Eppure anche quella gaffe da aperitivista fighetto, suona sincera. Il gin tonic, per lui, non è solo un drink. È il bicchiere da tenere in mano quando non sai dove mettere le mani. Quindi sì, magari avrebbe fatto più presa dire «Dio salvi la Nastro Azzurro», ma non sarebbe stato lo stesso. Ecco tutto Gazzelle, in un brindisi sbagliato con sentimento e, dunque, giustissimo.
A un tratto lo sguardo del pubblico non può che staccarsi dal palco e salire sui maxischermi a lato. Ed è lì che succede la magia, o forse il meme. È una sintesi visiva perfetta: Gazzelle appare, ipersaturato e immenso, mentre sta cantando in tuta blu, con gli occhiali da sole anche a notte fonda e il già citato taglio a frangetta da antico romano in vacanza a Riccione. È l’anti-popstar che, proprio perché non desidera essere una popstar, lo diviene. Salviamo fiduciosi quel fermo immagine. Perché Gazzelle è tutti noi quando ci rivediamo nei momenti sbagliati delle storie salvate degli altri. Non distinguiamo in che direzione vadano i suoi occhi, eppure lui riesce comunque a farci sentire visti.
Ma non finisce qui. Chiuso l’ultimo pezzo in scaletta, Destri, Flavio, davanti alla nostra più totale incredulità, si toglie gli occhiali da sole: non bastavano più a coprire la verità. Sotto c’è un volto che non fa scena. C’è un giovane che piange, sul serio, senza zoom, senza pathos. Come se per tutta la serata avesse tenuto insieme quei pezzi a forza di nastro adesivo e arrangiamenti e, solo ora, in quell’ultimo minuto, potesse finalmente permettersi di lasciarsi andare.
Non dice altro se non che vorrebbe che il concerto, il più bello della sua vita, non finisse mai. Ma deve finire. E, per un po’, aggiunge, si fermerà. Non farà altre serate. Quel gesto – piccolo, umano, disarmato – vale più di qualsiasi bis. Così capiamo davvero chi è Gazzelle: uno che canta per rimettere insieme quello che resta dopo che abbiamo già detto tutto.
All’uscita dal concerto, mentre tutti si riversano verso la metro, c’è chi canta ancora. Una ragazza si ferma, friendzona uno spasimante e gli intima: «A fra’, per l’amore di Dio, se non ci roviniamo anche questo ricordo, è già tanto». Gazzelle non ti cambia la vita. Ma è il sottofondo ideale mentre ce la incasiniamo. E, di questi tempi, è più che sufficiente. È tutto quello che possiamo chiedere all’arte.