Il concerto dei Massive Attack è una doccia gelida di realtà | Rolling Stone Italia
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Il concerto dei Massive Attack è una doccia gelida di realtà

Al Parco della Musica di Milano, per Unaltrofestival, la band di Robert “3D” Del Naja e Grant “Daddy G” Marshall ci ha ricordato quant’è grave il presente, ma anche quanto bello potrebbe essere se solo lo volessimo

Il concerto dei Massive Attack è una doccia gelida di realtà

Robert "3D" Del Naja dei Massive Attack

Foto: Edith Marchiani

Un compianto saggio di nome Philippe Zdar, conosciuto soprattutto per il suo progetto Cassius, una volta ha detto che non esistono generi musicali. O meglio, che ne esistono due: c’è la musica buona e quella non buona. Può sembrare una cazzata, specie per noi musicologi scoreggioni che facciamo a gara per coniare nuovi generi che magari erano già di loro sottogeneri di altro. Eppure, per quanto tranchant è una massima cosmologica. Una regola valida a prescindere, come il teorema di Pitagora.

Aprire e chiudere un concerto con In My Mind, remake moderno in chiave Café del Mar de L’Amour Toujours di Gigi D’Agostino non intacca minimamente la marmorea aura dei Massive Attack, che ieri sera hanno animato un posto normalmente popolato da zanzare come il Parco della Musica di Novegro. Musica estremamente politicizzata, chi li conosce lo sa, ma che proprio per questo può concedersi di infilarci nel mezzo anche una bella versione zarra di Levels di Avicii (buonanima pure lui) e non perdere un milligrammo di stile.

Grant “Daddy G” Marshall dei Massive Attack. Foto: Edith Marchiani

È proprio questo che mi manda fuori di testa di Robert “3D” Del Naja e Grant “Daddy G” Marshall, ormai unici superstiti di un collettivo che fino a metà anni Novanta vantava tra le sue fila pilastri del Bristol Sound, trip hop o come lo vogliamo chiamare. Gente tipo Tricky, per capirci.

Da allora, dal 1998 di Mezzanine, sembra che i Massive Attack non abbiano più sentito bisogno di cacciare fuori album. L’ultimo risale a 15 anni fa, un tempo che dal punto di vista discografico equivale a un’era geologica. Ma allora perché ieri sera ‘sto posto, disturbato continuamente dalle turbine CFM56 degli Airbus A320 in decollo da Linate, è diventato, almeno per una notte, un altare della contestazione, senza però scadere nella nostalgia?

La risposta è semplice: non esiste attualmente al mondo una band più lucida e consapevole di tutta la merda che sta capitando nella fase metastatica del tardo capitalismo. Quello dei MA non è un concerto, bensì una manifestazione con tanto di bandiere palestinesi, aperta tra l’altro da un intervento di una rappresentante di Medici Senza Frontiere.

Elisabeth Fraser canta ‘Teardrop’. Foto: Edith Marchiani

L’unica differenza con le manifestazioni di oggi in Italia è che qui la polizia se ne sta buona all’uscita, e poi c’è un signor sottofondo musicale, una band spaziale con due batteristi e un megaschermo che è davvero un elemento cardine dello show. Sui ledwall, lungo tutto il concerto, passano immagini distopiche dalla guerra in Ucraina ai reel generati con l’intelligenza artificiale che Donald Trump dai suoi canali ufficiali ha condiviso per mostrare al suo popolo di scellerati un futuro turistico e monetizzabile per Gaza. Una specie di via di mezzo tra Lloret de Mar e Dubai da ricostruire sulle macerie del genocidio perpetrato dagli usurpatori sionisti.

C’è gente che questa cosa della Palestina l’ha sempre urlata a gran voce, come Roger Waters, ma c’è anche chi, e non gliene facciamo una colpa, si è incazzato solo negli ultimi anni. Nel 2011, Del Naja e Thom Yorke hanno organizzato una festa illegale e no profit occupando un palazzo di UBS bank a Londra. Io non so davvero se la cosa potrebbe ricapitare oggi, dopo il merdone (meritato) che si è preso il cantante dei Radiohead dopo tutto lo shitstorm abbattutosi su lui e banda per essere sostanzialmente sostenitori dell’apartheid palestinese dal giorno zero. Sì, giorno zero. Lo sai qual è il primo posto in cui i Radiohead sono diventati famosi agli albori nel 1992? Se la tua risposta è l’Inghilterra allora è sbagliata. Indizio: è lo stesso posto da dove viene la moglie di Jonny Greenwood.

Ciò detto, il live di una band che non caccia fuori un album dal 2010 potrebbe risultare nostalgico, manicheista nel contrasto tra un passato (gli anni ‘90 di Mezzanine) e un presente che discograficamente è inesistente. Eppure, nel modo più orwelliano possibile, i Massive Attack sono tra i più grandi narratori del presente, della distopia informazionale, alienante e iper-digitalizzata con cui ci friggiamo le sinapsi tutti i giorni. I visual frenetici che passano le notizie gossip da Mara Venier che ha scazzi con il suo tipo a Dua Lipa che parla dei suoi problemi di fama sono la perfetta Polaroid di un mondo ormai bombardato da informazioni fuorvianti, completamente asservite alla missione di distrazione da ciò che succede realmente nel mondo in questo preciso istante in cui scrivo. Si stima che su Gaza sia stato sganciato l’equivalente di sei bombe atomiche ad alto potenziale. In quanti giornali italiani l’abbiamo letto, con tutta la doverosa copertura mediatica che bisognava dedicare al divorzio dei Ferragnez? Manco io che m’informo lo sapevo. L’ho scoperto guardando lo schermo alle spalle dei Massive Attack e sono rabbrividito.

Grant “Daddy G” Marshall dei Massive Attack. Foto: Edith Marchiani

Per cui, poco importa se la scaletta è breve e sempre la stessa se poi i pezzi sono dei ceffoni in faccia, come Unfinished Sympathy, Futureproof, Angel e Teardrop (cantata da una Liz Fraser commovente), e soprattutto se poi esci da lì completamente scosso per la doccia gelida di realtà che ti arriva addosso. Da sempre, l’attacco massivo non è soltanto rivolto a chi il potere ce l’ha e lo esercita in modo sempre più sanguinario, ma è soprattutto verso chi glielo sta lasciando fare, cioè noi.

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