«L’America ha un problema»: lo spettacolone di Beyoncé a Parigi | Rolling Stone Italia
Juneteenth

«L’America ha un problema»: lo spettacolone di Beyoncé a Parigi

Lo show di ‘Cowboy Carter’ non è solo un meccanismo perfetto. È anche uno spettacolo sui valori fondamentali dell’identità americana riletti alla luce della storia della popstar. E sì, ieri sera allo Stade de France c’era pure Miley Cyrus

«L’America ha un problema»: lo spettacolone di Beyoncé a Parigi

Beyoncé

Foto: Parkwood Entertainment

In un periodo storico come questo un piccolo segnale positivo è dato dalla voglia della musica pop – e non solo – di riappropriarsi della sua capacità di mandare messaggi potenti. Uno di questi è lo statement con cui quella che è oggi l’ultima delle popstar globali della vecchia scuola con una trentina d’anni di carriera all’insegna di una continua evoluzione, oltre che una delle personalità più visibili, riconoscibili e potenti del pianeta inizia il suo spettacolo mettendo bene in chiaro la tesi profondamente sociale e politica che sta dietro ai suoi ultimi dischi (non solo Cowboy Carter Reinassance, concept album sul legame tra musica americana e identità afrodiscendente, ma anche Lemonade): «America has a problem».

Il potere persuasivo di questa tesi sta tutto nel gigantesco ledwall che domina lo sfondo del palco, che spara per le ore di attesa prima del concerto una bandiera americana a tutto schermo che a un certo punto inizia rumorosamente a dissolversi lasciando alla cantante lo spazio di iniziare lo spettacolo con American Requiem.

Da quando ascolto musica mi sarà capitato di vedere più o meno un migliaio abbondante di concerti e per quanto la mia dimensione preferita non sia quella di uno stadio, non è certo il primo live con quasi 100 mila persone a cui assisto, quello di Beyoncé. Ma in questi anni una reazione così da parte del pubblico non l’avevo mai vista. Non è apparsa una cantante, ma un’entità che è molto simile a una divinità post-religiosa. Beyoncé non appartiene allo stesso mondo in cui viviamo noi e per quanto nella sua musica sia fortissimo il messaggio sociale e il dialogo costante con le faccende terrene e materiali della nostra piccola esistenza, la sua “aura” la posiziona su un altro livello rispetto ad altre grandi rockstar e popstar che mi è capitato di vedere. Se – facciamo un esempio stupido – il successo di Bruce Springsteen è legato alla sua capacità “populista” di essere la versione migliore di noi stessi (maschi bianchi etero cis), Beyoncé riesce a unire il massimo della popolarità possibile a una lontananza da tutte e tutti noi che non è spocchia o posa, è semplicemente la materia della sua essenza di popstar e ci sono decenni di letteratura sul divismo e lo star system che spiegano questo tipo di dinamica.

Il trasporto delle persone durante le tre ore di questo spettacolo (perché chiamarlo concerto è piuttosto riduttivo) ha qualcosa di spirituale. Non è solo la celebrazione di un’icona, ma è il sentire collettivo di un messaggio di empowerment individuale che parte sì da una profonda conflittualità con una connotazione “razzializzata”, ma riesce a diventare il più possibile universale. E, se non ricordo male, è questo il fine ultimo della musica pop.

«America has a problem», e il requiem si trasforma nell’inno americano cantato da Beyoncé su sfondo rosso su una base che riprende la performance di Woodstock di Jimi Hendrix. Una volta c’era il Vietnam, adesso ci sono i fronti di rivolta interni, ma soprattutto ci sono Palestina, Iran e Ucraina. «America has a problem» e l’esplosione di Freedom è quasi rabbiosa, catartica. Penso al potenziale sprecato di questa canzone nella campagna elettorale di Kamala Harris, ma i politici passano, la musica rimane.

Cowboy Carter è un’operazione teorica estremamente interessante: riflettere sulle dinamiche del country come elemento costitutivo dell’America profonda, ma ampliarne i confini per farci stare dentro i Beatles (Blackbird qui dedicata a «tutte le blackbird della nostra storia» mentre sul ledwall scorrono immagini di repertorio di personalità fondamentali per la musica black americana e il concerto si celebra il 19 giugno, Juneteenth, festa federale che commemora la liberazione degli schiavi afroamericani), i Beach Boys e Dolly Parton — forse la whiteness più assoluta — perché «You can’t take the country out of me» e trasforma quello che è almeno nella narrazione mainstream il genere più legato alla conservazione, al Partito Repubblicano e ai maschi bianchi etero in un messaggio più ampio, aperto e di possibilità. Questo non renderà le milioni di persone che hanno ascoltato il disco amanti del country (per fortuna), ma di sicuro ha fatto arrivare sguardi interpretativi diversi sulla storia della musica, in un tentativo quanto mai urgente di decolonizzazione della stessa.

Ma pur essendo architrave dello spettacolo, Cowboy Carter (disco che ha vinto il Grammy sia come album dell’anno, sia come album country dell’anno) dialoga con le hit storiche di Beyoncé che però, con gesto di sprezzatura che ho trovato estremamente elegante, vengono trattate un po’ en passant, come dei cartellini da timbrare: Single Ladies, If I Were a Boy e Crazy in Love appaiano così, come monadi hauntologiche di pop assoluto, ma che non rappresentano più quello che vuole essere Beyoncé adesso.

Tra l’altro, chi come me frequenta concerti che si svolgono di solito in piccoli locali, con gente che apprezza stando ferma e vede band che non sempre sono dei mostri di bravura (sia tecnica che di presenza scenica), non resta impressionato solo dalla scrittura e realizzazione perfetta dello spettacolo – in sintesi, prendete il migliore halftime show del Super Bowl e fatelo durare tre ore – ma dalla perfezione e dalla qualità tecnica dell’esecuzione. Beyoncé ha una voce pazzesca, usa tantissimi registri e tantissimi stili, passa da un genere all’altro e ha una potenza incredibile che non mostra cedimenti lungo tutto il set. Il corpo di ballo si muove con precisione chirurgica come quando sul palco, trasformatosi in un’ideale, buia e fumosa ballroom, rievoca e omaggia tutte le voguing battles in cui le comunità queer, trans e nere americane hanno trovato il proprio centro di aggregazione, resistenza e ispirazione d’identità.

I musicisti suonano in modo incredibile e qui mi viene in mente la ricerca della perfezione e potenza musicale come strumento di emancipazione della comunità afrodiscendente americana raccontata su Rolling Stone US anni fa da Jonathan Lethem quando ha seguito una tournée di James Brown. Insomma, per tenere uno spettacolo del genere deve essere tutto preciso, perfetto e al massimo livello di performance. Non per farsi dire bravi, ma appunto per offrire a un pubblico che ha pagato un biglietto molto caro una sera che non si dimentica facilmente.

 

 
 
 
 
 
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Lo spettacolo mette al centro il concetto di valore. Anzi, a volerla dire tutta, è come se nel tour di Cowboy Carter Beyoncé prendesse i valori fondamentali dell’identità americana e li rileggesse alla luce della propria storia personale e professionale, reclamandone legittimità per sé stessa e per chiunque abbia modo di starla a sentire, quasi un’agenda. La famiglia – con le figlie Blue Ivy e Rumi sul palco e la primogenita anche protagonista di uno spezzone doppelgänger con Déjà Vu che balla replicando in tutto e per tutto lo stile e le mosse della madre – la libertà (prendo la musica più lontana da me che esista perché non esistono limiti a quello che possiamo fare come persone), il denaro come strumento di liberazione (a livello simbolico allegorico sempre presente negli spezzoni – molto ironici e critici – che raccontano la storia di Beyoncé/Cowboy Carter come elemento di raccordo tra le varie parti dello show), l’amicizia e le relazioni. E qui vale la pena citare II Most Wanted, forse uno dei pezzi più riusciti sul concetto di amicizia degli ultimi anni e cantata per la prima volta dal vivo insieme a Miley Cyrus, che appare all’improvviso e provoca l’aumento dell’impatto acustico della città di Parigi di almeno 10 punti decibel per quello che è un inno alla lealtà e alla capacità di starsi accanto tra amiche, raro in un mondo in cui le donne tipicamente e tradizionalmente cantano solo dei propri mariti o compagni o amanti.

16 Carriages, per me forse il pezzo più bello di Cowboy Carter, è posta in chiusura di show giusto prima dei saluti finali con Amen (giustamente) con Beyoncé che termina questo spettacolo lunghissimo, ininterrotto – lei ogni tanto sparisce per un cambio d’abito che porta a un cambio di scena, uno sviluppo della narrazione, uno spostamento della dimensione spettacolare ma non si ferma mai niente – e adrenalinico nella sua essenza di stimolazione sensoriale continua, che dimostra (a me che sono ormai quarantenne lo ricorda, ma ero uno dei più vecchi allo Stade De France insieme al mio vicino di posto, un padre che in risposta agli outfit da cowboy e cowgirl rispondeva con un “full Beatles”: maglietta di George Harrison, iPhone con sfondo Abbey Road e cover con tanto di logo… indovinate qual è la canzone che ha registrato dall’inizio alla fine?) davvero il potere del pop di portare messaggi – da Chuck Berry sparato in ralenti a tutto ledwall, a Gil Scott-Heron che dice «the revolution will not be televised» – ed essere persuasivo.

Ci sono i grandi spettacoli che sono dei baracconi inutili. Ci sono star del pop che hanno una fortuna incredibile per poco tempo e non riescono a reggere perché non hanno presenza o carisma. Ci sono sprechi di soldi mastodontici non commisurati al materiale di partenza. Qui non è niente di tutto questo. Per chi come me ha visto tutto con occhi un po’ alieni, è sembrato tutto non solo carico di senso e significato, ma anche l’unico modo possibile per poter portare in giro una musica come questa che, tra l’altro, almeno in Europa, toccherà solo le città storiche della tratta degli schiavi. E poi qualcuno pensa ancora che la musica pop non possa risvegliare le coscienze…

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