Se esiste un Paradiso, e se Brian Wilson in questo momento ne fronteggia la porta, è probabile che stia esitando un bel po’ prima di bussare. Dopo aver passato una vita a inseguire armonie perfette sulla Terra, facendosi così spesso sopraffare dal sogno di una gioia musicale inafferrabile, quale potrà essere la sua ansia nel trovarsi di fronte alle polifonie celestiali che da Dante Alighieri ai giorni nostri un po’ tutti si aspettano dal Grande Concerto Nel Cielo?
Le armonie vocali sono state il primo enorme contributo alla reinvenzione del rock americano dei fratelli Wilson, insieme agli imprescindibili Al Jardine e Mike Love. Poi la cosa verrà insabbiata, ma dagli hippie Crosby, Stills, Nash & Young ai ruvidi Ramones, dagli Eagles ai Van Halen alle boy band degli anni ’90, l’esca di un coro di voci che si fondono con una certa riconoscibilità ha sempre fatto abboccare milioni di ascoltatori. Ovviamente non le aveva inventate Brian Wilson, erano l’ingrediente principale del doo-wop e di tanti gruppi vocali neri dal jazz al rhythm’n’blues. Ma per il giovane Wilson l’idea dell’armonia è una questione personale, è lo scopo stesso della musica o della vita, non sta a noi chiedergli di distinguerle.
Nel sedile posteriore dell’auto di famiglia, insegna l’arte dei Four Freshmen ai fratelli minori, ma ci vuole un quarto, ed è il compagno di scuola Al Jardine. Il quale porta alla band il contributo più contemporaneo possibile: il suono di chitarra garagistico che furoreggiava nei gruppi strumentali della surf music californiana. Alla fine del 1961 il singolo di debutto Surfin’, uno dei primi brani di surf music con un testo, si inserisce al n. 2 in una classifica americana che vede al n. 1 Can’t Help Falling in Love di Elvis, al n. 3 il Twist di Chubby Checker, e al n. 4 Moon River di Henry Mancini. C’è tutta un’epoca americana in questa classifica del 1961, un anno in cui il rock’n’roll è considerato una moda finita, con tanti saluti ai capelli a banana e ai Tutti Frutti.
Il surf è la smania del momento, Hollywood produce a nastro film spiaggistici come l’Italia degli anni 80. Ma a Brian Wilson del surf e della spiaggia non frega veramente niente: lui vorrebbe starsene In My Room, per lui il mare è una forza furiosa, un abisso infinito dal quale non c’è ritorno (‘Til I Die)m ma paradossalmente si ritroverà a essere un Beach Boy, a celebrare il California dream: ragazze in bikini, ragazzi sulla cresta dell’onda, automobili e Fun, Fun, Fun. Non gli interessa, accetta di vestirsi con quelle goffe camicie a strisce e fare gioviali foto sul bagnasciuga, approva i testi furbi e semplicioni del cugino Mike Love, lascia che gli altri vadano in tour nel mondo accolti da teenager che strillano: a lui interessa stare a casa, a inseguire una sweet sweet music, a cercare di crescere.
Inizia a capire chi va nella sua stessa direzione. Per esempio un produttore, Phil Spector, che per una canzone di tre minuti chiede l’impiego di tre bassi, quattro chitarre, strumenti a volontà fusi come fossero uno e come se tutti insieme creassero una parete sonora. Per Wilson «era una musica che si avvicinava all’intangibile». Invaghito di Be My Baby delle Ronettes, si avvicina a lui e alla leggendaria Wrecking Crew. Da quel momento, i Beach Boys diventano due gruppi: i ragazzi che vanno in tour da una parte, e dall’altra una ventina di sgamati professionisti in studio ad ascoltare divertiti ma affascinati il goffo, entusiasta ragazzone 22enne che cerca di spiegare la musica che sente nella testa.
Poi, come tutti gli americani dell’epoca una sera del 1964 accende la tv per vedere cos’hanno di speciale quei quattro di Liverpool di cui tanto si parla. «Che meraviglia. Anche se ero un po’ geloso, a dire la verità. Perché I Want to Hold Your Hand non era un gran disco». Paul McCartney: «Da quel momento in poi, noi facevamo una canzone, lui ne faceva un’altra, nacque una specie di competizione». Ma come disse Mick Jagger la prima volta che li vide, i Beatles sono un mostro a quattro teste. La loro capacità di evoluzione è vertiginosa, ma anche la maestria nel capire il pubblico e gestire un immaginario. Brian Wilson è da solo mentre scrive, arrangia, suona, produce, pensa musica. Ma non ha la capacità di assorbire quel qualcosa nei tempi che sta cambiando, come dice a un certo punto un revivalista del folk del Minnesota, uno che John Lennon sta invece tenendo d’occhio. Wilson non ha un contraltare nel gruppo che contrapponga gli Strawberry Fields a Penny Lane, o che gli ricordi che per una Ruby Tuesday che va, ci sono tante Honky Tonk Women che vengono.
No, Brian Wilson non se ne accorge, ma sta per affondare in un mare di musica. «Ciò che conta sono le emozioni che puoi mettere in due minuti e mezzo», si convince. Ma quello che non riesce a capire, è che non provengano solo dal susseguirsi di note incantate.
Rubber Soul lo spiazza, ma replica con Pet Sounds. Lennon & McCartney se lo fanno portare prima che sia uscito da Bruce Johnston, sostituto di Brian nella live band. McCartney: «Pensai: oh cavolo, adesso cosa facciamo? Il livello dell’invenzione musicale, wow». Ma Lennon probabilmente non si preoccupa nemmeno un secondo: sente I Just Wasn’t Made for These Times e sa che il punto è quello. Tomorrow Never Knows ma oggi, fuori dalla stanza di Wilson ci sono le manifestazioni per i diritti civili e il Vietnam, ci sono la controcultura e musiche un po’ meno bianche (persino gli inglesi stanno ascoltando blues). E per Giove, la droga. A Brian Wilson, quella arriva. Per un po’ gli espande le porte della percezione. Ma presto, lo trasformerà nel Syd Barrett californiano.
Ma sulle prime, l’effetto è moltiplicatore: Wilson continua ad alzare l’asticella musicale. Alcuni dei suoi pezzi hanno sempre la forma di canzoni pop o rock, come Wouldn’it Be Nice o California Girls. Ma in altri inizia a fondersi un senso di struggimento celestiale, una frustrazione espressa in modo melodioso e formalmente sempre più vicino al Paradiso, senza mai toccarlo: dall’amore che non può durare in Here Today al lamento corale apparentemente gioioso di Sloop John B: “I wanna go home, let me go home!”.
Good Vibrations è il culmine della sua lotta con la musica, e lo sa. Carol Kaye, una dei bassisti della Wrecking Crew: «Il fatto che non avesse studiato musica non gli faceva vedere certi limiti e certe soluzioni prevedibili. Spesso la cosa giocava a suo favore. Ma a volte non capiva quali strade non portavano a niente». Per Don Randi, uno dei tastieristi: «Per quella canzone, lavorammo tre mesi in tre studi diversi. Nessuno faceva niente di simile, negli anni ’60». Quando fu pronta, gli altri Beach Boys furono chiamati per inciderla. Mike Love scrisse il testo durante il viaggio in macchina. Il massimo della accuratezza nella musica, il massimo dell’indifferenza per il testo. Bop, pop, good vibrations. Peraltro, miracolosamente, certe parti risultano impeccabili: “I don’t know where, but she sends me there”, è in fin dei conti la sintesi del rapporto tra Brian Wilson e la musica.
La “sinfonia tascabile” del 1966 va al n. 1 dappertutto. Ma da lì in poi, tutto inizia a crollare. I Beach Boys si chiamano fuori dal festival di Monterey del 1967 (buon per loro, viene da dire: che fine avrebbero fatto, con le camicie a strisce tra Jimi Hendrix, Grateful Dead e Who?). I Beatles incidono Sgt. Pepper. E poi i Pink Floyd, i Doors, i Jefferson Airplane.
I Beach Boys nel 1967 entrano nel paradosso finale. Tutti li considerano obsoleti proprio mentre diventano il gruppo più hippie in circolazione, con la meditazione trascendentale, i testi ermetici di Van Dyke Parks, le assurdità freak in studio – la sabbia attorno al piano o il fuoco mentre i musicisti suonano con caschi da pompiere – e santo cielo, Dennis Wilson che inizia a frequentare Charlie Manson, del quale incidono un brano. Sembrano storditi dall’Estate dell’Amore quanto un gruppo lontanissimo da loro, i Rolling Stones, che però dopo il bagno di acido di Satanic Majesties si attaccano al blues e si reinventano street fighting men.
Nel 1967 Brian Wilson non ha più molto a cui attaccarsi. Ha solo 25 anni. Ma come Orlando, ha perso il senno, e nessun Astolfo glielo può recuperare. Nasce la leggenda di Smile, l’album “perduto” che secondo la leggenda avrebbe potuto essere il Sgt. Pepper americano (in realtà, no). Nasce soprattutto un anelito a inseguire vita natural durante un’ispirazione mitologicamente perduta, come testimonieranno anche i tanti ritorni a Smile. Wilson riuscirà ancora a comporre canzoni da togliere il fiato, da Surf’s Up fino alla perfezione rétro di That’s Why God Made The Radio (2012). Ma quello che lo ha reso unico è stato il percorso verso una musica di pura luce, partito da canzoni di innocente, contagiosa gioia giovanile, diventata poi una solitudine cantata in coro (God Only Knows come questo sia possibile) fino a una un’idea di musica di pura luce. Ma come insegna il sig. Icaro, a volte questi voli portano a perdere contatto con le cose che succedono quaggiù – musica compresa. Una cosa è certa: tutti gli dobbiamo tantissimo per averci creduto, e per averci provato. Forse nessuno ci proverà più. But wouldn’t it be nice?