Questa volta St. Vincent dà tutto: «Sul palco voglio perdermi» | Rolling Stone Italia
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Questa volta St. Vincent dà tutto: «Sul palco voglio perdermi»

Una breve chiacchierata con Annie Clark sulle differenze tra i vecchi tour e quello che toccherà l’Italia tra il 20 e il 23 giugno. «Un tempo non cercavo amore dal pubblico, ora voglio essere abbracciata. E rischiare»

Questa volta St. Vincent dà tutto: «Sul palco voglio perdermi»

St. Vincent

Foto press

«Questa volta non porto in scena un personaggio. Questa volta voglio perdermi sul palco». Collegata dal suo studio, St. Vincent racconta a un piccola rappresentanza di giornalisti italiani lo spirito del tour di All Born Screaming che ha toccato Milano a ottobre e che rivedremo fra pochi giorni, il 20 giugno al Medimex di Taranto, il 21 al festival La Prima Estate di Lido di Camaiore (LU) in una giornata che prevede anche i Calibro 35 e gli Air, il 23 al Castello di Udine. A Rolling Stone toccano un paio di domande. Le uso per farmi raccontare com’è cambiata la sua percezione dei concerti che fa. Lei, modello di perfezione, performer strepitosa, musicista vera, negli ultimi anni ha fatto show molto costruiti portando spesso in scena personaggi attraverso cui diceva anche cose molto personali, ma che implicavano una certa distanza emotiva dal pubblico. La potevi letteralmente toccare, ma non sapevi se le importava qualcosa.

Forse è cominciato tutto col tour con David Byrne. Direi che è stato allora che St. Vincent è diventata sempre più consapevole dell’aspetto teatrale di un concerto, tant’è che in quello show e in quello solista successivo i movimenti erano coreografati da Annie-B Parson. Da allora, ogni volta che ha inciso un disco e lo ha portato in giro per il mondo Annie Clark ha portato un diverso personaggio, dalla dominatrice di Masseduction alla reginetta di bellezza sotto benzodiazepine di Daddy’s Home. Le chiedo quindi: non è che anche il nuovo tour ha un concept ed è quello della classica iconografia rock’n’roll tutta pose e sesso? C’è un elemento di teatralità che s’affianca a un’idea più viscerale di esibizione, c’è un’esposizione spudorata ma mai gratuita del corpo, ci sono ammiccamenti che un tempo non c’erano. E insomma, dove finisce la realtà e dove inizia la rappresentazione?

«In quanto esseri umani, conteniamo moltitudini», risponde St. Vincent. «In un certo senso, ognuno di noi ha dentro di sé più persone. E hai assolutamente ragione quando dici dell’importanza del tour con David. Mi ha molto ispirata vedere come funziona la sua mente e il modo in cui abbiamo messo insieme lo show di Love This Giant fra teatralità e coreografie. Ho suonato in band con un lato teatrale, ma ai miei tempi, nell’ambiente indie da cui provenivo, non era certo di moda essere un’artista teatrale, anzi. L’idea era che ti dovevi presentare sul palco con indosso i vestiti che usavi tutti i giorni e far finta che non te ne fregasse niente».

A lei invece fregava e col passare degli anni ha sviluppato un linguaggio musicale e corporeo che ha adattato alle storie che rappresentava. «Ero interessata al concetto di personaggio, all’analisi dei personaggi. L’ho fatto nei miei lavori precedenti come Daddy’s Home, Masseduction e anche l’album omonimo». Ai tempi del tour di Masseduction, in particolare, sembrava dominare il pubblico. Era gratificante avere quel potere? «Mmm, era gratificante nella misura in cui sono riuscita a dare alla gente un concerto sfidante e insolito. Ma è anche vero che forse non ero una persona che poteva dare o ricevere tanto amore, quindi non mi sentivo a mio agio a colmare quel divario». Non questa volta. «Voglio perdermi dentro questa esperienza. E quindi no, non c’è un personaggio questa volta, non sto interpretando una rocker. Sono me stessa. Sono ora controllata e ora scatenata, a seconda di dove mi porta la performance. Questo concerto è un posto dove tutti possiamo fare lo stesso sogno per 90 minuti. È un’esperienza».

C’è un’altra cosa. All Born Screaming è un disco pieno di canzoni sulla vita e la morte. Il concerto invece è estremamente fisico e rigenerante, per niente cupo. Se ne esce anzi felici e sollevati. «Penso che ci sia una certa giocosità nel modo in cui interagisco col pubblico questa volta più che nei tour passati dove era tutto molto coreografato e controllato. Un tempo volevo capire cosa voleva dire essere una performer nell’era digitale, usando quindi il linguaggio freddo del digitale, ma sono cose a cui non penso più. Adesso il pensiero è: abbiamo una sola vita, viviamola. Sentiamo le cose. Amiamo profondamente. E prendiamoci dei rischi».

Una delle cose strane e magnifiche che succede durante il concerto, dove Clark è accompagnata da Jason Falkner, Mark Guiliana, Rachel Eckroth e Charlotte Kemp Muhl, è l’esecuzione di New York, una delle tracce di Masseduction su cui lei, che ha sempre fatto crowdsurfing, decide di buttarsi sul pubblico e farsi portare in giro per la platea. Non è un pezzo ritmato e frenetico, è al contrario malinconico e lento. L’effetto è quindi divertente e irreale, è come vedere una scena al rallentatore. «Quella è una delle canzoni in cui non suono la chitarra e quindi posso entrare in connessione con la gente, l’idea è nata così. Ecco, in questo tour cerco la connessione. Sento più compassione, amore, gratitudine nei confronti del pubblico. Loro ci sono e io non sarei qui se non fosse per loro. Voglio sentirmi meglio e voglio dire alla gente che andrà tutto bene, anche se in realtà non lo so. Insomma, voglio un contatto viscerale con le persone. Voglio abbracciarle. Io ho bisogno di un cazzo di abbraccio».

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